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    Home»Costume e società»Attualità»Cronaca di un ricovero ospedaliero
    Attualità

    Cronaca di un ricovero ospedaliero

    Marta AjòBy Marta Ajò21/03/2018Nessun commento7 Mins Read
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    donne-ospedale
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    Sarà più facile raggiungere una nuova cultura digitale e robotica piuttosto che riuscire a  migliorare quella con la quale siamo cresciuti e sulla quale si sono sempre basati i principi che hanno sorretto l’umanità

    Arrivare in un qualsiasi Pronto Soccorso ospedaliero, è risaputo, non è piacevole.

    Prima di tutto perché deriva da un problema di salute grave, secondo perché si sa che bisogna armarsi di tanta pazienza a meno che  (non lo si augura a nessuno) non ci sia il codice rosso che  annulla qualsiasi speranza di tempi brevi per il codice giallo (media gravità) e dimentica il codice verde.

    Si sa, ogni malato pensa di avere lo stesso diritto ma le emergenze vanno rispettate, ci mancherebbe altro.  In attesa  di essere visitati si deve dunque essere pazienti (molto visto che passano anche sei ore di attesa) con il rischio di diventare futuri ricoverati. A questo punto l’ identità è solo un insieme di dati burocratici, di riconoscimento legale, la persona un materiale di studio (nel migliore dei casi) e l’anima vaga dentro di ognuno alla ricerca della propria casa e di una cuccia sicura.

    La caratteristica di un pronto soccorso non è data solo dall’incertezza per la propria sorte, per l’immediato futuro o dalle ore che scorrono. Il PS, la sua collocazione fisica e strutturale, la tipologia degli arredi, la mancanza di zone di sosta adeguata per malati e parenti rendono più amaro l’approccio. Che diventa sempre più “caotico” dal mancato senso civico di molti incidentati e di chi li deve accogliere.

    Lo sappiamo, ce lo hanno insegnato, ce lo ricordano. E solo un imbecille di qualsiasi genere, classe o razza appartenga che  capiti in quel luogo può pensare di essere in una sala da tè a consumare pasticcini. In quel posto il bon ton/ buona educazione paiono banditi, tutto diventa spersonalizzato salvi il sangue (se c’è), la febbre, i parametri, ossa rotte, cuori capricciosi, traditori, cervelli confusi o in fuga, solitudini di anziani smarriti. E se capita che qualcuno conservi la calma necessaria non resta  che sperare di cavarsela presto e uscire da quel girone che, per quanto umano, pare non appartenergli.

    Ciò premesso non si deve essere ingrati verso un servizio sanitario pubblico che comunque (con tutte le sfasature e i limiti che ben conosciamo) garantisce spesso delle eccellenze di cura. Non si sputa  mai nel piatto dove si mangia e non si deve generalizzare. Ma non è  per parlare del SSN che queste parole scorrono come fiume piuttosto per raccontarne piccoli, quanto significativi episodi.

    Ovunque circola molta gente, vale per un aeroporto, una spiaggia estiva, un ristorante ecc. ove è inevitabile confrontarsi con i propri simili. Anche in un pronto soccorso.
    LA BARELLA (compagna di giorni e notti in numero variabile), inizia a fare il suo percorso instabile seguendo il movimento del trasportatore indifferente al corpo umano che trascina e sbatte nelle curve, soffermandosi in mezzo alle correnti. Poi sosta, improvvisamente abbandonata in mezzo ad uno spazio  dove non ci sono rumori né presenze, solo il giacente ricordo umano. Quando una porta si apre ed una luce illumina il tutto la barella ricomincia a sgranchirsi emettendo suoni rugginosi.

    LA TAC. “Cosa devo fare”- “niente: si deve togliere tutto”, che già risultano in contraddizione.
    Nello specifico l’essere umano è una donna che deve togliere reggiseno, maglietta e maglione, aprire pantalone e rimuovere orologio ma che non può muovere mani e braccia per il dolore allo sterno. Intervengono loro che, mentre continuano a parlare di una squadra calcio infilano le mani negli abiti, tirano fuori i seni come mozzarelle.
    “Mi dispiace, siete gentili ma mi sento in imbarazzo” “Tranquilla,  le donne neanche le vediamo, brutte, belle (bugiardo), giovani o vecchie per noi non esistono”, l’altro annuisce e continua a smanazzare senza grazia. Uscire da una situazione come questa non è facile, solo sperare di non avere bisogno. Il bulino continua a infierire ” Le donne fanno solo disastri, rovinano la vita, rompono i coglioni, andrebbero ammazzate tutte”. La barellata osa dire “Infatti vediamo quello che sta succedendo. Si rende conto di quello che dice? Cosa insegna ai suoi figli?”.”Questo gli insegno, che le donne  sono troppe e vanno eliminate tutte” e sbattendo la barella, deposita quel malloppo di carne umana, di genere, senza grazia alcuna sotto l’occhio informe ma assai più delicato del macchinario.

    IL PRIMARIO. E l’ora della visita del primario. Quello per il quale pare si stia apparecchiando una sorta di Red Carpet. Che deciderà del decorso ospedaliero del paziente, della terapia e delle attese dimissioni. Eccolo, arriva, col codazzo della sua equipe e dottorandi. Caspita!Tutti  angeli  intorno. Come nella reclame del caffè Lavazza! Angeli che però non sorridono mentre la paziente-degente-sventurata dice “buon giorno”e tutti le girano le spalle. Cosa è stato, un ronzio?
    “Chi è questa?”, esordisce annientando l’anagrafe e l’autostima della paziente che si gira inquieta per conoscere i volti di quelli che sa essere medici; che parlano proprio di lei, ma come se non ci fosse. Stanno raccontando proprio gli ultimi e recenti atti della sua vita sicurissimi di non sbagliare niente, non c’è neanche bisogno di chiederle conferme o chiarimenti.
    Nel frattempo il primario si accascia su se stesso e sulla sedia che lo sorregge mentre tutti sono sull’attenti, si stropiccia gli occhi, mugola, annuisce, dissente. Fare questo, quest’altro, la dose,cambio antibiotico ecc.” Tutti annuiscono e scrivono. Si alza e senza salutare si avvia alla porta.
    La paziente s’interroga sulla diagnosi che nessuno le ha ancora precisato. “Ho una sofferenza gastrica e non sopporto…”.
    Lo sguardo del primario per la prima volta si sofferma su di lei. Tace. Tutti pendono dalle sue labbra.
    “Le donne parlano troppo, avete visto come in macchina stanno attaccate al cellulare in mano, sono molto pericolose. Le giovani anche con la sigaretta e il braccio appoggiato al finestrino. Un disastro”.

    LA PAZIENTE. Che  è diventata impaziente osa “Dottore lei guarda molto le donne ma la sua mi sembra una visione molto parziale “. Questo ronzio deve essere ancora più fastidioso, perché si alza di scatto “Beh, avanti così. Starà qualche giorno con noi (10) tanto chi l’aspetta?”. La paziente obiettivamente valuta di non corrispondere all’immagine di Jessica Rabbitt, con le occhiaie, colorito verde marcio, capelli mezzi dritti mezzi schiacciati, crosticina sul labbro che neanche il coniglio Rabbit l’aspetterebbe, figurarsi un uomo (perché quello era sottointeso) e si capisce che per una donna altro non conti. E’ assodato dunque che una che non sta al cellulare e non sporge la mano con la sigaretta appesa fra le dita non è degna di attenzione.
    La paziente lo informa che però  l’attende il suo editore al quale deve consegnare un testo ed ha fretta di essere dimessa. Nessuna risposta, silenzio di tomba, e il primario sparisce.

    IGNORANZA.  Non ci si abitua mai a tanta ignoranza, spaventa.
    DIFFERENZA. La paziente continua il suo soggiorno ospedaliero aiutando la compagna di camera che  sta molto peggio cercando di assisterla,  di alleggerire il lavoro degli infermieri oberati, ordinando la camera senza aspettarsi ringraziamenti o gratitudine. Resta il mistero della differenza di genere che rende impossibile all’uno ciò che è possibile all’altra: adattamento, accudimento, cura e conseguente rispetto del corpo.

    CULTURA. Una domanda sorge legittima. Sarà più facile raggiungere una nuova cultura digitale e robotica piuttosto che riuscire a  migliorare quella con la quale siamo cresciuti e sulla quale si sono sempre basati i principi che hanno sorretto l’umanità? Chissà, magari un pilota automatico potrà anche indicare le donne che parlano troppo per attivare un pulsante che le azzittisca definitivamente.

    ricovero ospedaliero
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    Marta Ajo
    Marta Ajò
    • Website

    Marta Ajò, scrittrice, giornalista dal 1981 (tessera nr.69160). Fondatrice e direttrice del Portale delle Donne: www.donneierioggiedomani.it (2005/2017). Direttrice responsabile della collana editoriale Donne Ieri Oggi e Domani-KKIEN Publisghing International. Ha scritto: "Viaggio in terza classe", Nilde Iotti, raccontata in "Le italiane", "Un tè al cimitero", "Il trasloco", "La donna nel socialismo Italiano tra cronaca e storia 1892-1978; ha curato “Matera 2019. Gli Stati Generali delle donne sono in movimento”, "Guida ai diritti delle donne immigrate", "Donna, Immigrazione, Lavoro - Il lavoro nel mezzogiorno tra marginalità e risorse", "Donne e Lavoro”. Nel 1997 ha progettato la realizzazione del primo sito web della "Commissione Nazionale per la Parità e le Pari Opportunità" della Presidenza del Consiglio dei Ministri per il quale è stata Editor/content manager fino al 2004. Dal 2000 al 2003, Project manager e direttrice responsabile del sito www.lantia.it, un portale di informazione cinematografica. Per la sua attività giornalistica e di scrittrice ha vinto diversi premi. Prima di passare al giornalismo è stata: Consigliere circoscrizionale del Comune di Roma, Vice Presidente del Comitato di parità presso il Ministero del Lavoro, Presidente del Comitato di parità presso il Ministero degli Affari Esteri e Consigliere regionale di parità presso l'Ufficio del lavoro della Regione Lazio.

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    Per anni nessuno ha voluto pubblicare il suo roman Per anni nessuno ha voluto pubblicare il suo romanzo, L’arte della gioia, uscito dopo la sua morte (nel 1996 a 72 anni) e solo grazie alla dedizione del marito, Angelo Pellegrino. Il libro vide la luce nel 1998 presso Stampa Alternativa (e poi nel 2008 da Einaudi). Tollerata dai salotti intellettuali del tempo, dove era entrata grazie alla sua lunga relazione con il regista Citto Maselli, Goliarda Sapienza fu sempre insofferente nei confronti del mondo intellettuale e borghese. Attrice, scrittrice, donna libera, più irregolare che anticonformista, chissà cosa penserebbe dell’interesse che sta suscitando in questo periodo non solo la sua opera ma anche la sua vita.

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Lo studio delle lingue straniere alimenta la curiosità e stimola la voglia di apprendere in molte discipline anche ben diverse, soprattutto se sostenute da una capacità imprenditoriale. Questo lo dimostra la storia qui di seguito riportata di Marialuisa Portaluppi da noi intervistata.
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