Chi vive in pace è, purtroppo, superficialmente abituato a parlare di guerre.
Generalmente apprese attraverso i media come qualcosa di molto lontano, difficilmente queste notizie trasmettono sensazioni corporee. Nessuno, pur immedesimandosi, può provare ciò che altri vivono.
L’orrore, o il più discreto dispiacere, per quanto avviene in quei luoghi remoti non scende oltre la testa.
La notizia di morti, affamati, orfani, ostaggi, prigionieri, pur richiamando ad un senso di appartenenza umana, raramente sfocia o va oltre un sentimento di solidarietà, più o meno partecipata, verso queste sfortunate “categorie”.
Di corpi ammassati, morti o vivi, dentro fosse o tende comuni. Luoghi dove la promiscuità non può che generare vergogna e pericolo.
Corpi “interrotti”, sottratti alla privacy, all’igiene, al rispetto, alla vita.
Non è compito di questo articolo entrare genericamente in un “terreno di guerra”.
Il dibattito in corso è già complicato di suo ma c’è un aspetto ignorato, molto “particolare”, non meno grave, in questo scenario.
E’ il corpo delle donne.
Da sempre e in tutte le guerre, tra le armi usate contro i civili, quella dello “stupro” di donne di ogni età è sicuramente la più ignobile. Un’arma che non si vende, non si esporta, non richiede formazione militare. Ogni soldato ne conosce perfettamente l’uso. Rapida ed economica sa sempre come centrare il bersaglio.
Rivolta a colpire la sfera intima e psicologica, corpo e anima, della vittima, arrecandole una ferita invisibile ma dolorosamente permanente. A volte lasciandole in ricordo un “seme”, a volte privandola della vita.
Non c’è stato un tempo, in cui le donne non abbiano subito questa forma estrema di violenza.
Lo stupro è divenuto un retaggio storico via via reinterpretato, a seconda degli obiettivi, affinato, consumato con buona intesa di tutti. Un corpo come bottino di guerra senza anima, che in età contemporanea è andato a fare parte di una strategia mirata a colpire le popolazioni civili, di sopraffazione-distruzione etnica.
Un fenomeno utilizzato da tutti i paesi (Rwanda, Bosnia, Sudan, Ucraina ecc.), da tutte le culture, in tutti i conflitti.
Il conflitto Israele-Palestina non lascia scampo.
Lo confermano le più recenti immagini delle donne israeliane rapite il 7 ottobre. Con i pantaloni sporchi di sangue, portate nude come trofei, morte o vive, stuprate, allontanate dai mariti e dai figli, imprigionate in cunicoli, uccise da armi e da stenti, sparite nel niente dell’inferno di Gaza.
E dall’altra parte i corpi irriconoscibili delle palestinesi. Avvolti da pezze nere che quasi impediscono loro di respirare. Di quelli che le immagini mostrano correre giù e su, (dove colpiranno?) e su e giù (dove trovare le cure? dove il cibo? dove un riparo?). Un percorso instancabile che ricorda una lunga fila di formiche.
Le vittime di guerra prescindono da genere, età, sofferenza. Tutti ne sono colpiti ma, nelle guerre, il corpo delle donne vive un inferno ulteriore che riguarda la loro specificità di genere.
Private di uno spazio che possa coprire i loro corpi nei momenti più delicati del loro essere femminile. Non un posto che le tenga al riparo degli sguardi né uno specchio in cui riconoscersi. Costrette a perdere il pudore mentre cambiano indumenti, anche intimi, in presenza di sconosciuti ammassati sotto lo stesso tetto provvisorio.
Ubbidienti alle regole di natura, esse sono costrette a vivere in promiscuità, con vergogna e prive d’igiene, anche il ciclo mestruale e il parto.
E la natura, che non contempla guerre, stabilisce e segue cicli, tempi e modi finalizzati alla sua riproduzione. Sia pure sotto droni, bombardamenti e macerie.
Donne non donne.
Donne sopravvissute che continuano a generare.
Donne private di cibo pronte ad allattare.
Donne malate, nel corpo e nella mente, che resistono perché la loro resilienza è necessaria per dare seguito al ciclo vitale.
Eppure e sempre donne.
Artefici contemporanee di vita e di lotta.
Conservatrici del ricordo, dei legami affettivi, di speranza.
Donne pronte al dialogo, ai trattati, a scavalcare barriere e confini, ai cambiamenti, alla PACE.
Protagoniste di una sfida femminile secolare che nessuna guerra potrà negare. Nessun futuro potrà prescinderne.