OVVERO COME LE BUONE IDEE DEBBONO INTEGRARSI CON LE POLITICHE TERRITORIALI VERSO UNA ARMONIZZAZIONE DEI TEMPI DI LAVORO E DI CURA
La riflessione parte dalla proposta di inserimento – all’interno del Jobs Act – di un dispositivo normativo che vada a modificare l’art. 10 del D. Lgs. 66/2003, permettendo così la possibilità di donare parte dei propri permessi retribuiti o delle ferie ad un/una collega.
Lo spunto per tale proposta arriva da due casi concreti.
Il primo, francese: i colleghi di lavoro hanno donato giornate di ferie per permettere ad un papà di trascorrere più ore possibile con il figlio malato terminale di tumore. Da questa esperienza è nata la Legge Mathys, approvata recentemente dal Senato francese.
Il secondo, italiano: in Toscana una lavoratrice del locale servizio trasporti affetta da grave patologia, rischiando di perdere il posto di lavoro a causa del superamento del periodo di comporto, ha ricevuto in dono giornate di permesso dai propri colleghi.
L’esperienza realizzata, per essere replicata, necessità però di protezione giuridica. Ammonta a quattro settimane, il periodo minimo di ferie per chi lavora previsto per norma. Tale riposo non può essere sostituito dal pagamento di alcuna indennità per ferie non godute, se non in caso di licenziamento. Le ferie infatti, rappresentano il necessario periodo per recuperare le fatiche del lavoro. Da questa esperienza è nata la proposta, per offrire la possibilità a chi lavora di trasferire – nel limite di 1 giorno all’anno – il diritto di godimento delle ferie ad altro/altra dipendente dello stesso datore di lavoro affetto/a da gravi patologie. Medesima facoltà potrà essere esercitata per l’assistenza dei figli o di familiari a carico.
Le prime critiche alla proposta, emerse nell’articolo pubblicato in Wired del settembre 2014, fanno principalmente riferimento al fatto che, in una “società a progetto” che vive perennemente in scadenza e non ha diritto a ferie e permessi, questa opportunità riguarderà soltanto lavoratrici e lavoratori dipendenti, ignorando tutte le altre forme contrattuali esistenti. Inoltre, offrendo tale opportunità, lo Stato si tirerebbe ulteriormente indietro sul fronte del welfare non avendo risorse per poter rispondere all’accresciuto fabbisogno.
Indubbiamente, da una prima analisi le due principali problematicità di questo strumento sembrerebbero essere:
– Riguarda solo i contratti di lavoro dipendente (forse anche a tempo indeterminato);
– Lo scambio avviene all’interno dei dipendenti di una stessa imprese, il che sembrerebbe tecnicamente mettere fuori gioco le piccole e piccolissime imprese (ricordiamo che il 92% delle imprese ha meno di 20 dipendenti, ma se scendiamo di dimensione la percentuale aumenta sensibilmente fino a raggiungere il 98%), causa di una realtà non in grado di mettere in pratica il dispositivo normativo.
Pur consapevole di tali limiti, occorrerà comunque tenere presente che per lavoratrici e lavoratori la flessibilità, qualunque sia il loro contratto, tesa a facilitare l’equilibrio tra il tempo di lavoro e quello di cura rappresenterà sempre più un’esigenza diffusa.
L’invecchiamento della popolazione, l’allungamento della vita lavorativa, la diminuzione delle reti parentali solo dati che disegnano uno scenario futuro caratterizzato da un concreto fabbisogno di tempo. Tutte le opportunità di acquisizione di strumenti in tal senso rappresentano – a mio parere – una reale politica attiva per il lavoro utile a donne e uomini.
Data la varietà dei lavori esistenti, e dei contesti organizzativi di riferimento, sarà opportuno creare menù di opzioni, allo scopo di andare incontro alla molteplicità di fabbisogni. E la molteplicità sarà rappresentata sia da servizi tradizionalmente concepiti (ad es. nidi, servizi anziani, servizi per la disabilità, ecc.) sia da buone prassi a costo zero per lo stato, tutte gestite tra chi lavora e le imprese.
In questa direzione, le Amministrazioni Locali potranno avere – se ben orientate – un ruolo importante per favorire l’armonizzazione tra servizi tradizionali ed innovativi (welfare pubblico) e tutte le forme di welfare lavorativo (nato dall’intervento diretto di aziende, enti bilaterali, ecc.).
L’obiettivo sarà quello di evitare che si formino dispari opportunità tra chi ha la fortuna di lavorare in una grande azienda illuminata e chi invece opera in contesti più piccoli o meno sensibili.
Lo Stato, le Amministrazioni locali debbono saggiamente amministrare il patrimonio delle opportunità emergenti dal territorio, cercando di trasformare le buone prassi individuali in prassi diffuse ed integrate nel welfare territoriale.