La cultura della parità non si è ancora radicata.
Quanto raggiunto può essere irrimediabilmente perso. Se non si crea una vera rete di donne.
Le cose cambiano ma non bisogna fare passi indietro ed è necessario vigilare. E’ questo quello che pensa Rosa Amorevole, classe ’54, bolognese, esperta in pari opportunità e giornalista. L’avevamo intervistata già anni fa a proposito delle nascenti Banche del tempo e la ritroviamo ancora a battersi per i diritti di parità delle donne.
Cosa ne pensi della situazione attuale? Si è stabilizzata o sono stati fatti passi indietro?
Quando si parla di parità, pari opportunità e discriminazioni, non si è mai di fronte ad una situazione consolidata. Basta poco e quanto raggiunto può essere irrimediabilmente perso. La cultura della parità non si è ancora radicata nella nostra società. Del resto l’Italia presenta da sempre situazioni a “macchia di leopardo”: nei servizi, nella partecipazione al lavoro e nelle retribuzioni, nelle opportunità e nella libertà delle donne. La crisi che sta colpendo il nostro Paese sembra aver improvvisamente riportato indietro la condizione delle donne anche nei territori dove queste avevano raggiunto livelli avanzati, ponendo altresì forte ipoteche in quelli dove erano rimaste più indietro (penso ad esempio alla Calabria, regione in cui le donne “spariscono” statisticamente dal mercato del lavoro. Disilluse dai risultati, ora non lo ricercano più e non vengono neppure registrate tra le disoccupate). I tagli ai trasferimenti, ad esempio, incidono negativamente sui servizi offerti. Ed il venir meno di servizi che aiutavano donne e uomini nella cura dei minori, degli anziani possono riportare a galla l’idea che ad occuparsi della cura debbano essere le donne. Soprattutto nel caso in cui, dovendo rinunciare ad uno stipendio, si rinunci a quello più basso, quasi sempre quello femminile.
E questa situazione colpisce in maniera dura quelle donne che credevano di avere diritti e servizi, che le discriminazioni fossero un ricordo del passato. Oggi aumentano le denunce di discriminazioni e molestie, così come aumentano le donne che abbandonano il lavoro perché non sono più in grado di conciliare. Una possibile gravidanza è un deterrente non solo per un’assunzione, ma anche per l’affidamento di un incarico professionale; la necessità di conciliare è un vincolo alle progressioni di carriera. Molto spesso i preconcetti limitano le opportunità anche a quelle che sono riuscite a condividere ed a organizzarsi sul versante personale. E il merito non sembra ancora essere la caratteristica sufficiente a rompere certi tabù organizzativi.
C’è ancora molto da fare?
Innanzitutto non piangersi addosso. Lavorare sulle organizzazioni del lavoro per creare le condizioni che garantiscano flessibilità e conciliazione, evidenziando che queste soluzioni sono economicamente vantaggiose per le aziende. Occorre dimostrare che le competenze e le attitudini delle donne possono produrre ricchezza, così come le discriminazioni – al contrario – producono perdite di potenzialità di sviluppo. Occorre dimostrare che la partecipazione femminile ai luoghi decisionali porta al miglioramento delle condizioni di tutti, donne e uomini, anche creando quella giusta competizione che fa crescere complessivamente l’organizzazione e la società nel complesso.
Perchè gli uomini accettano così difficilmente il criterio delle p.o. o meglio della democrazia paritaria?
Ogni volta che si affronta il tema della democrazia paritaria la prima obiezione è sempre quella che non si debbano riservare posti alle donne solo per il fatto che sono donne, che la competizione debba essere giocata sul merito. Questo potrebbe essere un concetto accettato se alla competizione il genere femminile potesse partecipare ad armi pari, senza i pre-concetti che “tagliano le gambe prima della corsa. Nei Paesi dove la corsa avviene alla pari, come in quelli nordici ad esempio, il risultato è chiaro e confermato dalle statistiche. Da noi questo non avviene.
Credo che le donne vogliano fortemente confrontarsi sul merito, perché se questo fosse il metro di paragone sanno che potrebbero avere qualche chance. Nei percorsi scolastici, dove il merito conta, i risultati ci sono. Negli ultimi venti anni molti passi avanti sono stati fatti anche nella condivisione dei ruoli familiari, eppure alle donne si continua ad attribuire la sfera del privato mentre agli uomini si continua a riservare la sfera pubblica. Ed anche quando il carico del privato diminuisce la sua influenza, e le esperienze lavorative assumono un peso rilevante, ancora non viene loro attribuita “la capacità” di poter gestire. Ma non sarà che questa “opposizione” alla democrazia paritaria non sia di fatto soltanto la manifestazione di una paura di perdere posti e posizioni?
E le donne sono forse responsabili anche loro di questa situazione?
Negli anni ’80 le donne hanno riflettuto sul tema dei tempi di vita e di lavoro per promuovere una diversa organizzazione del lavoro. La legge 125/91 si poneva come finalità la promozione di una uguaglianza sostanziale (quella formale era già definita nella Costituzione), ed indicava proprio nella individuazione di una diversa organizzazione del lavoro, delle condizioni e del tempo del lavoro, le condizioni favorevoli per creare l’equilibrio fra responsabilità familiari e professionali ed una migliore ripartizione di tali responsabilità tra i due sessi.
Successivamente l’accento è stato posto solo su una parte: sul doppio carico delle donne. Poco si è fatto per promuovere diverse condizioni di lavoro e la condivisione, per evidenziare il potenziale economico di questa opportunità. Molto spesso le ricerche hanno posto più l’accento sulle difficoltà che sulle soluzioni possibili. Forse la società non era ancora pronta ad affrontare un cambiamento così repentino, ma a distanza di 30 anni molto è cambiato. Per questo oggi, le giovani ragazze molto spesso si dimostrano annoiate quando le più esperte della vita pongono loro quelle che sono e saranno anche le loro difficoltà nel mondo del lavoro. Non ci credono, fino a che decidono di avere un figlio. Non credono perché la società è andata avanti, ma si ricredono quando rilevano che le organizzazioni sono rimaste indietro, ancorate alle vecchie logiche. Ed è su queste che oggi, giovani e più esperte, debbono su questi aspetti lavorare insieme.
Cosa ne pensi delle reti di donne? E delle innumerevoli iniziative sorte?
E di Pari o dispare? O altre associazioni che vogliono coagulare intorno a sè l’interesse delle donne?
Le reti di donne, le associazioni, le realtà informali sono espressione della necessità di mettere insieme le singole difficoltà per trovare insieme una forza comune per poter cambiare la realtà. Salute delle donne, bilanci di genere, tematiche del lavoro, differenziali salariali e reddituali, rappresentanza, conciliazione, contrasto alla violenza, sicurezza, solo per citare alcuni dei temi oggetto di riflessione.
Accanto a reti, associazioni e realtà informali si sono via via aggiunti anche organismi originati da leggi, contratti, statuti, progetti: commissioni, comitati, consulte per le pari opportunità, assemblee delle elette, consigliere di parità, sportelli, organismi sindacali e datoriali delle donne. Molti organismi, più o meno radicati, più o meno operativi. In molte si sono occupate di parità e pari opportunità. Molto spesso in modo autonomo, con il rischio di autoreferenzialità. Ad eccezione di chi si è occupata delle donne che hanno subito violenza, ho la sensazione che tutte si siano occupate di tutto, talvolta anche superando i limiti del mandato istituzionale. E spesso ci siamo divise, tra chi vuole le quote e chi no le vuole ad esempio. Tutte con il desiderio di distinguersi nella propria specificità, con l’idea di far rete ma senza di fatto farla.
In Spagna ho avuto modo di vedere che molte associazioni si riuniscono in confederazioni, proprio per garantirsi una rappresentanza nazionale pur mantenendo un forte contatto con il proprio contesto di riferimento. E associazioni e federazioni sono fortemente relazionate con le organizzazioni sindacali e datoriali, con gli organismi istituzionali. Mi chiedo se questa fitta rete di relazioni e questo meccanismo di rappresentanza forte, unito allo stretto contatto con le università, non sia stata la chiave di volta per ottenere quanto ottenuto in questi ultimi anni.
In che direzione è meglio andare?
Il tema è molto complesso, difficile da sintetizzare in poche battute. Oggi occorre agire su diversi fronti: presidiando i diritti delle donne, contrastando i fenomeni di arretramento e di discriminazione, promuovendo una cultura della parità e delle pari opportunità e una valutazione degli impatti di genere, promuovendo una rappresentanza paritaria e un contrasto ai fenomeni di violenza di genere. Per fare questo sarebbe opportuno operare in rete, garantendo rappresentanza e rappresentatività. Ma occorrerebbe agire in modo di non essere singole eccellenze, ma massa eccellente.
Cosa sbagliano?
Chi sono io per dire che le altre sbagliano? Diciamo che sento un leggero disagio di fronte ad alcuni atteggiamenti: il dividersi delle posizioni per essere tante fila con poche persone in coda; al piangersi addosso perché ogni volta che incontro giovani donne sento la loro avversione verso ciò; ad una realtà che cambia ad una velocità tale che diventa fondamentale studiare capire e reagire, ritrovando – come in un mobile di Calder – il nuovo equilibrio.
La tua esperienza cosa ti suggerisce?
Poche semplici cose: lavorare a testa bassa con onestà e rigore, confrontarsi con le/gli altre/i , non stupirsi se la vita è un po’ andare avanti e un po’ tornare indietro, ma pensare che se sai dove andare anche zigzagando saremo in grado di percorrere la strada. Ma soprattutto in questo periodo: tenere presenti i problemi concreti, lavorare sui dati e non sui “si dice”, dimostrare che cambiare si può e che conviene.
Rosa M. Amorevole, 54 anni e vivo a Bologna.
Laureata in Scienze Agrarie, dottore agronomo; laureanda in Storia. Ha seguito corsi di perfezionamento per divenire Consigliera di Fiducia e sulla comunicazione per giornalisti in ambito sanitario, ambientale e della salute e sicurezza.
Iscritta all’albo dei giornalisti, collaboro con il mensile Noidonne.
Nella prima parte della mia vita mi sono occupata di amministrazione aziendale, ho gestito una grossa azienda agricola cooperativa come responsabile agricolo e vice presidente. Quest’esperienza si è conclusa alla prima maternità.
Successivamente ho lavorato al Centro Innovazione Formazione e Ricerca della Camera del Lavoro di Bologna, occupandomi di tempi e orari delle città (ricerca, formazione e promozione dei piani degli orari, delle banche del tempo, della flessibilità degli orari per la conciliazione dei tempi), mercato del lavoro, genere e contrasto alle discriminazioni. Sono stata esperta nell’analisi di bilancio ed ho collaborato con i Consigli di Fabbrica nelle trattative aziendali.
Dal 1999 ho lavorato in enti di formazione, approfondendo i temi del mercato del lavoro, immigrazione, valutazione in ottica di genere.
Dal 2004 al 2009 sono stata Consigliera di Parità supplente per la provincia di Bologna, dal 2006 sono Consigliera regionale di parità per l’Emilia Romagna, dal 2008 sono Consigliera di Fiducia per una ULSS del Veneto, continuando a svolgere il lavoro di formatrice e consulente con il quale mi guadagno, spero, la pensione.
8 commenti
bell’intervista Caterina, molto bella, che svela il vulnus centrale del movimento delle donne in Italia che non ancoa non ha avuto il coraggio di dare una risposta alla necessitò di una forte rappresentanza… anche politica.. per ora ahimé è vero, del movimento si è dato solo una pur efficace, rappresentazione….
Rosa ha una grande esperienza, ma soprattutto è una persona coi piedi per terra..
Bella intervista e da condividere, con un titolo che non mi sembra corrisponda agli spunti che fornisce la consigliera di parità dell’Emilia Romagna: una rete delle reti secondo me non è ipotizzabile, mi sembra più realistico nel’associazionismo delle donne piuttosto lavorare insieme, ciascuna con le proprie specificità, sugli obiettivi che ci uniscono, e già questo non è facile, lo sappiamo bene noi che seguiamo gli sviluppi di Senonoraquando.
Mi piacerebbe inoltre se, partendo proprio da chi ha incarichi ufficiali si approfondisse il tema di come ridare autonomia e vera rappresentatività istituzionale ai vari organismi di parità che nel corso degli ultimi anni hanno visto una pericolosa involuzione: un esempio per tutti, quello della Commissione nazionale per le Pari Opportunità.
Ritengo anch’io che una “rete delle reti” sia utile, non tanto come organismo, quanto come circuito di comunicazione. Spesso infatti la mano destra non sa cosa fa la sinistra, nel senso che ci sono moltissime iniziative sparse (da parte di numerosi gruppi ed associazioni femminili) che, almeno in termini di coordinamento della notizia e “coinvolgimento e fidelizzazione” dell’audience, potrebbero rappresentare UNA notizia ma ben più forte e rappresentata di tante notizie singole.
La “rete di reti”, più che raccontata e organizzata, va ATTUATA. E la si attua anche molto semplicemente, con un passaparola ramificato e capillare in cui tutte sanno tutto di quello che accade nelle varie associazioni; ci si dovrebbe parlare tra persone, raccontare ciò che si sta facendo, ecc. I tutto senza il fardello di una sovrastruttura organizzata (se non quelle delle varie associazioni), perché poi si solletica la sete di potere, che di per sé non è un male assoluto, ma lo diventa quando trasforma il mezzo (la rete) in fine, ovvero in potere fine a sé stesso. E’ che spesso ho l’impressione che viceversa le informazioni vengano “celate” per rendere esclusivo appannaggio di uan ristretta cerchia di privilegiate, che essendo depositarie delle informazioni acquisiscono potere rispetto alle altre. Se invece si abbandonassero tali piccole strategie e ognuna di noi diffondesse informazioni e lanciasse idee e proposte a tutte; una volta creata la lobby (che diventa anche mailing list condivisa) poi quando c’è da fare un’azione la si fa tutte assieme. La cosa complessa è la gestione delle singole umanità… ovviamente.
Inoltre, altro vulnus che ho spesso denunciato, le stesse associazioni di donne non hanno mai il coraggio (o la voglia?) di FARE NOMI, ovvero di proporre candidature/selezioni interne per sostenere eventuali candidate ai vari livelli elettorali. Quando si chiedono nomi, questo sono sempre regolarmente al di fuori della propria cerchia, quasi come a cercare rifugio in qualche personalità famosa o persona che non entri in diretta competizione con noi… Se domani un segretario di partito decidesse di convocare le associazioni più rappresentative per chiedere loro qualche nome da mettere in lista in rappresentanza della società civile al femminile… temo che ci troverebbero impreparate!Credo che noi donne abbiamo troppo spesso ancora il TABU’ dell’ambizione e del potere… poiché se una appena-appena manifesta il desiderio di arrivare là dove conta, spesso viene tacciata di rampantismo e arrivismo (se ha figli non ne parliamo…), usando le più classiche categorie di stereotipi in circolazione sulle donne ambiziose/in carriera. Credo che dovremmo fare pace con questo aspetto e viceversa sostenere chi ha la voglia (e il coraggio) di sfidarsi in campo politico; ed inoltre cessare con l’ipocrisia per la quale sembra sempre che tra tutte le militanti non ce ne sia mai una che fa attività per arrivare da qualche parte… ma tutte dichiarano sol di farlo per il piacere di farlo. Certo che c’è il piacere di farlo, ci mancherebbe, ma sarei ben felice se ascoltassi qualcuna dichiarare “io vorrei occupare quella posizione: chi è disposta a sostenermi nel percorso?” Va da sé che poi arrivata in quella posizione costei faccia l’interesse comune. Invece sembra sempre che – quando ci sono – gli incarichi piovono dal cielo nostro malgrado… quasi casualmente o per un colpo di fortuna…
Condivido pienamente ciò che dici, ma guarda caso molte delle donne che hanno raggiunto visibilità, sono invise alle altre..casualità o è la storia della volpe e dell’uva?
Non sono molto d’accordo sull’invidia… se una donna è in gamba e arriva a grossi risultati (mi vengono in mente Margareth Tatcher, Madeleine Albright, Condoleza Rice e senza andare così lontano la nostra Anna Finocchiaro ad esempio o Rita Levi Montalcini) si può solo applaudire.
Certo se arrivano a ruoli di potere con l’esperienza dello “stacchetto”……… beh qui esce solo tanta rabbia!
Io mi sento sinceramente svilita e mi vergogno di essere rappresentata da esempi così.
Perchè purtroppo il messaggio che passa ed è passato negli ultimi anni non esattamente studia e fa funzionare il cervello!
Che tristezza!
Sono lusingata da tanti commenti.
Sicuramente far massa è importante. Mi piace molto lo spot per la manifestazione dell’11/12: forte, chiaro, senza troppi fronzoli.
Imparare a lavorare insieme è fondamentale e sta alla base del processo che può portare anche alla formulazione di nomi, liste – a partire da criteri condivisi (competenza sul tema, capacità di dialogo e di mediazione, assenza di arroganza, solo per fare qualche esempio) – di donne in grado di rappresentare anche altre in posti dove il genere femminile scarseggia.
Credo sia importante anche una buona dose di “precisione”, nel mirare gli obiettivi in relazione al ruolo che si esercita.
Sperando di non essere fraintesa, vorrei provare ad esprimere cosa intendo per “precisione”.
Qualche tempo fa, chiamata all’Università per una conversazione sulle pari opportunità, una persona dal pubblico mi disse: “Ma insomma, ci sono miriadi di organismi che si chiamano commissioni-comitati…di pari opportunità. Ma perchè ce ne sono tanti se poi non si riesce ad ottenerle queste pari opportunità?” Non posso che esser grata per quella domanda, perché innanzitutto mi ha fatto riflettere. Probabilmente esiste, in chi ci ascolta, una sorta di confusione: chi potrà realmente essermi utile di fronte ad un problema specifico (ovvero risolvere il mio problema)? E poi, se faccio parte di un comitato aziendale che si deve occupare di parità e pari opportunità, la mia attività dovrà incentrarsi su questo. Se, come consigliera di parità, il mio ambito di azione è il lavoro, dovrò spiegare bene quali sono le problematiche e come queste possono essere risolte (o per lo meno come possiamo provare a risolvere quel specifico problema). Io di lavoro mi occupo e cerco di declinare parità e pari opportunità in quel specifico contesto. Se mi occupo di conciliazione dovrò essere in grado di fornire una soluzione specifica legata a quel contesto, non solo promuovere una generale cultura sul tema. Perché chi si rivolge a me questo cerca. Non sempre ci si riesce, ma quando l’azione viene mirata, anche se non riesci alla fine ti viene riconosciuto che ci hai provato e le persone ti ringraziano. Questo presuppone che devi capire di fronte a quale organizzazione del lavoro ti trovi e quali possono essere le soluzioni possibili. Poi le devi proporre, devi dimostrare come una diversa soluzione può andare a vantaggio della persona e dell’organizzazione (perché il benessere organizzativo fa bene alla persona ma anche all’azienda che ne trarrà vantaggio). Poi la mia esperienza potrà essere utile anche a chi ha come obiettivo il fare politiche di pari opportunità o chi, come le associazioni, può raccogliere le istanze di chi a loro si rivolge. Se, nella mia attività incontro un problema di violenza, dovrò rivolgermi a chi ha maturato – come molte associazioni – una specifica esperienza in quel campo. Questo modo di agire porta tutte noi a relazionare anche in base alle specifiche aree di competenza, maturando una capacità di sviluppare sinergie, vicinanze e rete.
Il mondo del lavoro, a differenza di qualche anno fa., oggi presenta realtà con una diversa esigibilità dei diritti: sulla maternità – solo per fare un esempio – le condizioni variano non solo tra pubblico e privato, tra grande e piccola azienda ma anche in funzione dei diversi contratti nei diversi contesti aziendali. Il grado di complessità è molto elevato e la questione non può essere liquidata con una protesta generica (che non viene capita dai più) ma con molta precisione dobbiamo mettere in evidenza e suggerire soluzioni. Soluzioni che ognuna di noi dovrà individuare, confrontare con le altre, a partire dalle specificità che rileva e che possano contribuire ad individuare soluzioni coerenti e percorribili.
Nel mondo del lavoro è sempre più forte la conflittualità tra donne che hanno la piena esigibilità dei diritti e donne che vivono questa esigibilità come privilegio in quanto la loro è rasente allo zero. E questo credo sia molto pericoloso.
Per questo credo sia necessario un grosso lavoro comune, che necessariamente deve superare ogni forma di autoreferenzialità in vista di un importante obiettivo per tutte.
Mi rendo conto di aver fatto un discorso un po’ lungo, spero non troppo confuso vista l’ora.