Cosa significa essere immigrati?
Una domanda semplice solo in apparenza. La risposta è scritta nei corpi stanchi, nei silenzi carichi, negli occhi che ogni giorno si sforzano di apparire “adatti”.
Essere immigrati significa vivere anni lunghi, anni di fatica, di dolore, di invisibilità. Anni di lavoro duro e sottopagato, di tentativi continui di adattamento. Anni in cui ci si chiude nei confini della propria comunità perché “l’altro”, l’autoctono, fa paura. E, spesso, questa paura è reciproca.
Essere immigrati vuol dire abitare una posizione subalterna nella società postmoderna, dove si è tollerati solo quando si resta al proprio posto. Dove si è accolti solo se si rinuncia a ciò che si è.
Vuol dire essere più istruiti, più preparati, più disponibili, ma sempre percepiti come un corpo estraneo.
Come un elemento da assimilare o da espellere.
Ma perché è così doloroso?
Perché migrare è un lutto.
È lacerante dover abbandonare la propria casa, i propri affetti, gli odori familiari, i sapori dell’infanzia.
È una ferita che non smette mai di sanguinare.
E ogni giorno si sopravvive con la speranza di ricostruire, altrove, ciò che si è perso.
Agli immigrati si chiede tanto: imparare una lingua, adattarsi a un contesto spesso ostile, sopravvivere con salari bassissimi, affrontare turni estenuanti.
E, talvolta, a sfruttarli sono gli stessi compaesani.
Perché la rete è quella, e l’autoctono che ha il coltello dalla parte del manico può fare ancora più paura.
Ecco perché molti restano confinati nella propria comunità.
Si lavora tutto l’anno per quel solo mese di ritorno al Paese d’origine, ad agosto, per mostrare che ce l’hai fatta.
Per non essere un fallito.
Ma nessuno sa quanto dolore si porti dentro chi è partito.
E i figli?
I figli degli immigrati portano un peso ancora più grande.
Cercano di salvare i genitori davanti agli autoctoni, e gli autoctoni davanti ai genitori.
Appartengono a due mondi, ma si sentono senza terra.
Vivono nel paradosso di chi è “troppo” per una parte e “non abbastanza” per l’altra.
Sono disorientati, spaesati.
Qualcuno riesce a trovare un equilibrio, ma deve lottare il doppio, il triplo.
Più spesso, l’unica via di sopravvivenza è l’assimilazione: annullarsi, annacquare le radici.
L’Occidente lo chiama “integrazione”. Ma si può forse integrare una mela in una pera?
No. Al massimo si può fare una macedonia: convivere, interagire.
Le seconde generazioni cercano se stesse nei legami.
Nei sentimenti. Nelle relazioni affettive.
Ma anche lì si trovano in bilico.
Chi scegliere? Il compagno autoctono o quello della propria origine?
Spesso cercano affinità tra coetanei immigrati come loro, anche se di etnie diverse.
Ma poi emergono altri confini: religioni, culture, tradizioni.
Ostacoli nuovi. Dolori sovrapposti.

Sono una mediatrice culturale, madre di tre figlie, ognuno delle quali porta un nome occidentale e uno orientale.
Non per confonderle, ma per renderle complete.
Per farli appartenere a entrambe le culture.
Anche se so che è difficile.
Che è doloroso.
L’unica cosa che chiediamo noi immigrati, noi figli di frontiera è comprensione.
Conoscenza reciproca.
Il riconoscimento dei confini: dove inizia il mio e dove finisce, e dove inizia quello dell’altro.
Essere immigrati significa vivere una lotta silenziosa e quotidiana per il diritto di essere sé stessi, senza dover rinunciare a ciò che si è stati
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