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    Il tempo che ci vuole

    Erica ArosioBy Erica Arosio03/10/2024Updated:03/10/2024Nessun commento5 Mins Read
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    Di Francesca Comencini

    Con Romana Maggiora Vergano, Fabrizio Gifuni

    Di quanto tempo ha avuto bisogno Francesca Comencini per trovare la forza di raccontare una storia così intima? Di quanto tempo ha avuto bisogno per capire quale fosse il modo giusto per portarla sullo schermo? Credo che non si sia posta limiti e si sia detta: ci metterò tutto il tempo che ci vuole. Le stesse parole usate dal padre, il regista Luigi Comencini, nel momento più difficile della vita della figlia.

    A volte non possiamo programmare, a volte dobbiamo solo metterci in ascolto e affidarci alla benevolenza e ai tempi del destino.

    Così Francesca Comencini, “militante” da sempre di un cinema realista e impegnato nelle tematiche sociali spicca il volo, ascolta la voce del cuore e racconta con una magia psicanalitica e ancestrale il rapporto speciale che l’ha legata al padre.

    Ha sgombrato il campo da tutto il resto e si è concentrata solo su loro due. E sul cinema, l’arte  che dopo aver salvato la vita del padre salverà anche quella di Francesca.  

    È lui che la accompagna a scuola, che si scontra con una maestra ottusa, che porta la bambina a vedere la grande balena sotto un tendone da circo. Ma dove sono le sorelle? Dov’è la madre? Si gira con padre e figlia per l’appartamento spartano, irreale, arredato con pochi mobili, senza cucina, senza il cuore focolare di ogni casa e non si capisce. La perplessità svanisce quando si entra nella dimensione intima della storia.

    Scopriamo la tenerezza della confidenza, l’affetto paterno, severo e dolce, i fantasmi dell’infanzia,  sui quali primeggia la bocca spalancata della balena che si ripresenterà lungo tutto il film, prendendo la forma dell’ignoto, dell’inadeguatezza, del tunnel nero che inghiottirà l’adolescente Francesca.

    La prima parte è l’imprinting, perché la regista isola e racconta solo quei momenti che uno psicanalista potrebbe classificare come scena primaria. Situazioni che esprimono una doppia magia, quella dell’infanzia e quella della fiaba, perché il regista Luigi Comencini è alle prese con uno dei suoi lavori più amati, il Pinocchio televisivo.

    La figlia lo segue sul set e sgrana gli occhi di fronte alla storia di Collodi ma soprattutto a come viene trasferita su un set cinematografico, col suo miscuglio di fantasia e disordine che da subito la sedurrà.

    Le fauci del cinema non sono terrorizzanti come quelle della balena, sono anzi la possibilità della fuga e la ragione di vita. Francesca ci arriverà, ma prima dovrò affrontare il buio della paura. Ancora una volta la balena, che si materializzerà negli anni cupi del terrorismo e nella trappola dell’eroina.

    Vita vera, coraggiosa autobiografia, Francesca Comencini filma in pochi fotogrammi le due tragedie. I giovani studenti e Francesca con loro che applaudono in classe, al liceo, in piena lezione, quando sentono un militante che annuncia col megafono a bordo di una Cinquecento, per le strade di Roma il rapimento di Moro. Mentre in parallelo il padre livido ascolta la notizia al telegiornale. Poi l’eroina, con l’illusione, i volti emaciati, le morti, le siringhe.

    Sarà il padre, implacabile, forte, in una dimostrazione di amore totale a salvare la figlia, portandola via da Roma e passando con lei a Parigi, “tutto il tempo che ci vuole” per dimenticare la droga.

    “Non bisogna fare solo primi piani, si deve allargare l’inquadratura: lo spettatore deve vedere tutto il contesto, ha bisogno di capire”, dirà in una scena Luigi sul set. Francesca lo ascolta e lo sa, ma il suo cinema e questo film in particolare non segue i consigli paterni perché è tutto di primi piani, concentrato sui volti espressivi (bravissimi tutti e due) di Fabrizio Gifuni e Francesca Maggiore Romano nel ruolo dei due protagonisti.

    Il film è nel loro costante scambio, nel fil rouge che li lega, nella loro capacità di non perdersi mai di vista, in un amore paterno e filiale raramente rappresentato con tanta intensità al cinema.

    È un racconto in purezza che esclude da quel rapporto privilegiato il resto del mondo e che quando lo recupera lo fa attraverso il cinema, inserendo sequenze di  film muti (gli stessi che Comencini salvò dal rogo ponendo le basi della Cineteca). I film muti e non solo, perché vediamo anche pietre miliari nella formazione di tutti e due, come Paisà, nella sequenza più memorabile quella del partigiano che galleggia nel fiume: un cinema che è lavoro, politica, emozione.

    Francesca Comencini porta per mano lo spettatore trascinandolo in un finale di magia e cinema, con una citazione che fa incontrare De Sica e Spielberg e che è il più bel saluto che una figlia regista possa fare a un padre regista. Brava, bravissima e coraggiosa Francesca Comencini che ha realizzato il suo film più bello e maturo.

    Alla Mostra di Venezia era inspiegabilmente fuori concorso, ma ora, nelle sale, il pubblico lo sta premiando.

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    Erica Arosio

    Erica Arosio, milanese, una laurea in filosofia, giornalista, scrittrice, critico cinematografico, è mamma di due figli meravigliosi, Mimosa e Leono. è stata a lungo responsabile delle sezioni cultura e spettacolo del settimanale «Gioia» e ha curato per vari anni la rubrica cinema di «Radio Popolare». Autrice di una biografia su Marilyn (1989 Multiplo, poi 2013 Feltrinelli Real cinema, in cofanetto con il dvd «Love, Marilyn»), ha collaborato a varie testate, fra cui «la Repubblica» e «Il Giorno». Nel 2012 esce il suo primo romanzo, “L’uomo sbagliato” (La Tartaruga, poi Baldini & Castoldi, 2014). Con Giorgio Maimone scrive una serie di gialli ambientati nella Milano degli anni 50 e 60: “Vertigine” (Baldini & Castoldi, 2013), “Non mi dire chi sei”, “Cinemascope” , “Juke-box” e il racconto “Autarchia” nell’antologia “Ritratto dell’investigatore da piccolo” (tutti per Tea), “Macerie” (2022, Mursia), “Mannequin” (2023, Mursia) Sempre con Giorgio Maimone ha scritto “L’Amour Gourmet” (Mondadori, 2014), un romanzo sentimentale ambientato nella Milano degli anni Ottanta, il mémoire sul ’68 “A rincorrere il vento” (2018, Morellini) e i gialli ambientati in Liguria “Delitti all’ombra dell’ultimo sole” (2020, Frilli) e “La lista di Adele” (2021, Frilli). A gennaio 2024 è uscita l’audioserie originale Faccia d’angelo, storia di Felice Maniero e della mala del Brenta, disponibile sulle principali piattaforme. E’ autrice di ”Carne e nuvole” (Morellini, 2018) una raccolta di 101 racconti brevi e della favola ”La bambina che dipingeva le foglie” (Albe edizioni, 2019). Ha pubblicato diversi racconti in antologie collettive ed è fra gli autori in Delitti di lago 3, 4 e 5 (Morellini editore).

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Appunti di viaggio.

Di Alfredo Centofanti

Bari. La città vecchia è un labirinto di vie che raccontano infinite storie. Inarrestabile è il vociare degli abitanti nel dialetto locale, dei tanti turisti stranieri, dei pellegrini che da secoli vengono qui per venerare San Nicola, amato tanto dai cattolici quanto dagli ortodossi.
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    Luana Sciamanna è un’avvocata penalista nata a Luana Sciamanna è un’avvocata penalista nata a Genzano di Roma nel 1978 e vive ad Ariccia. È esperta di violenza di genere e relazioni abusive, e collabora con i centri antiviolenza dei Castelli Romani, fornendo consulenza e assistenza legale alle donne vittime di violenza. È anche docente per la Regione Lazio nella formazione degli operatori della rete antiviolenza territoriale, e fondatrice e Presidente dell’associazione di promozione sociale “Crisalide Donne per le Donne”, che si occupa di consapevolezza ed empowerment femminile.

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