“Ma è assurdo! Se ne pentirà senz’altro”.
Ho la sensazione che molte donne reagirebbero così, se scoprissero che una loro amica avesse intenzione di sottoporsi volontariamente alla sterilizzazione. Ma di cosa si tratta? Viene definita sterilizzazione contraccettiva o tubarica la procedura chirurgica di legatura delle tube di Falloppio, mediante bisturi elettrico o anelli e clips metalliche. Senza addentrarsi in aspetti tecnici, gli effetti dell’intervento consentono di prevenire gravidanze indesiderate durante tutto il corso della propria vita, e ci sono dei casi per i quali è specificamente indicato. Si pensi, ad esempio, a donne affette da patologie cardiache e pneumologiche, ma anche a casi di possibile trasmissione ereditaria di malattie. Inoltre, l’eliminazione del rischio di una gravidanza indesiderata sembra consentire a molte coppie di ritrovare maggiore equilibrio e serenità nella condivisione della sfera intima, ponendo un freno a disagi come il vaginismo e/o la scarsa soddisfazione sessuale.
Entrando nel merito degli aspetti più spinosi, va ricordato che – nonostante si tratti di una procedura per lo più irreversibile – ci sono stati casi di riconnessione spontanea delle tube e recentemente, a Castelvetrano, una donna di 36 anni ha richiesto un risarcimento danni per lesioni personali colpose determinate da un’inaspettata gravidanza. Doveroso è anche ricordare che questo intervento non ha funzione protettiva rispetto alla trasmissione di malattie.
Dato di fatto è però che in molte parti del mondo aumentano le testimonianze di donne che scelgono di sottoporsi a questo intervento, subendo tuttavia il giudizio degli altri, come se avessero commesso un peccato contro il dovere naturale di procreare. Un caso piuttosto recente è quello di Holly Brockwell, giovane giornalista che ha pubblicamente ammesso di voler ricorrere alla chiusura delle tube, adducendo motivazioni non biasimevoli: era assolutamente convinta da diversi anni di non voler diventare madre, e sapeva che in questo modo avrebbe potuto dire definitivamente addio alla pillola anticoncezionale, i cui effetti collaterali si erano resi ormai insopportabili. Alcune righe della sua intervista al Telegraph, proposta qui in Italia dall’Huffington Post, mi hanno molto colpita: “Sì, la sterilizzazione è drastica, è una decisione grande, seria e irreversibile. Ma anche avere un bambino lo è. E spero che un giorno entrambe le scelte possano godere del medesimo rispetto.”
Perché in fondo è proprio di questo che si tratta: ancora una volta i riflettori sono puntati sulla libertà, per una donna, di scegliere autonomamente come programmare la propria vita riproduttiva, libertà chiaramente avversata dal comune sentire e dal pregiudizio. Come se la maternità fosse una tappa obbligatoria nella vita di una donna, il passaggio dalla giovinezza alla maturità, il preludio di un massimo appagamento; come se fosse impensabile scegliere di rifiutare un dono offerto dalla natura, mostrandosi ingrate verso la vita e insensibili nei confronti di tutte quelle donne che – legittimamente – lottano tutti i giorni per provare a concepire un figlio e qualche volta non ci riescono.
Qui in Italia i numeri non sono molto alti: i dati più recenti riferiscono che solo il 2% della popolazione femminile ha deciso di sottoporsi a questa procedura, e la questione è notevolmente influenzata tanto dalla scarsa conoscenza quanto da coscienza e morale. La tecnica, in realtà, ha iniziato ad affermarsi già negli anni ’70 come mezzo contraccettivo, e ha avuto risonanza soprattutto con l’approvazione della Legge 194/1978 che ha per la prima volta messo al centro il desiderio legittimo di una donna di scegliere come, se e quando mettere al mondo un figlio (seppur con tutti i limiti del caso, primo fra tutti l’obiezione di coscienza), abrogando l’art. 552 del Codice Penale, che puniva non solo l’operatore sanitario che avesse leso la capacità procreativa della donna, ma anche la stessa, nonostante l’affermazione del proprio consenso. A dar man forte, la Sentenza 438/1987 della Corte di Cassazione che stabiliva la primarietà del diritto alla salute fisica e psichica della donna (art. 32 della Costituzione), in particolar modo proprio in virtù del consenso (che implica anche l’accettazione dei rischi derivanti dall’intervento). Ed è proprio a garanzia di adeguate riflessioni che è stato fissato un termine di 30 giorni, durante i quali scegliere in modo definitivo se intervenire o no, in piena coscienza delle conseguenze.
Sembrerebbe dunque che la legge sia dalla nostra parte, e che il limite sostanziale restino le persone, troppo avvezze a giudicare con rapidità scelte legittime e per lo più ragionate.