E se una donna che che lavora fosse anche una mamma felice, non sarebbe un bene anche per i figli?
Le donne di oggi, pur continuando ad essere le regine del focolare e nonostante spesso continuino a scegliere di essere madri, ambiscono e desiderano anche lavorare e non solo per contribuire alle finanze familiari, ma come scelta individuale in risposta ad aspettative e desideri di gratificazione e realizzazione personale.
Tuttavia spesso questo viene giudicato popolarmente come una scelta egoistica che sottrae tempo, energie e disponibilità ai figli, un venir meno nei riguardi degli obblighi e delle responsabilità genitoriali.
Chiaramente questa convinzione generale vale per le mamme, quando si parla di padri impegnati per lavoro, talora anche per giornate o settimane intere, la questione cambia: in questo caso, il lui della situazione è legittimato “perché deve mantenere la famiglia” e quindi assolve al suo compito che, come i suoi avi gli hanno insegnato, è quello di andare a cacciare e portare il pane a casa.
Al contrario, la madre lavoratrice, soprattutto se impegnata fuori casa per molte ore al giorno, è spesso giudicata e superficialmente additata come poco curante dei figli.
Questo è uno dei motivi per cui la madre lavoratrice stessa, condizionata da questi fallaci schemi socio-culturali, finisce per credere di essere mancante verso i figli, di creare in loro privazioni, di sacrificarli o addirittura di nuocere in virtù della scelta personale di investire non solo nella maternità e nella famiglia, ma anche in se stessa e nella sua realizzazione professionale.
Sono proprio queste convinzioni conformiste e distorte che alimentano spesso sensi di colpa, ansie e preoccupazioni nelle madri lavoratrici.
Tutto ciò è legato al fatto che quando una donna diventa madre, ci si aspetta che annulli se stessa, come facevano le generazioni passate, in virtù di una missione sacrificale a vita e che i figli vengano prima di tutto, per cui non esiste più un individuo a sé (la donna, la persona) ma solo in relazione al pargolo da nutrire e poi crescere (la madre). Pertanto la donna che, al contrario, pensa anche a sé, ai suoi desideri e bisogni personali e che si prende un suo spazio individuale, oltre a dedicarsi ai figli, diventa per la società una mamma egoista (nell’accezione negativa del termine).
Siamo così sicure che il lavoro delle mamme sia così dannoso per i figli?
Da una recente ricerca americana della Columbia University School of Social Work condotta su 10000 bambini di dieci diverse aree geografiche, emerge che la crescita sana dei bambini non è legata tanto al fatto che la madre lavori o meno, quanto piuttosto all’attenzione dei genitori nei confronti delle esigenze dei figli, a prescindere dalle ore trascorse insieme.
Personalmente sono convinta che il fatto che la madre lavori, non solo non sia dannosa, ma possa addirittura avere effetti positivi anche sui figli. E non mi riferisco tanto e solo ai ragazzi adolescenti che magari bramano il momento in cui i genitori vanno fuori di casa, per avere “campo libero” e quindi invitare amici e fare quel che vogliono, perché si sa, “quando i gatti non ci sono, i topi ballano”. La questione è molto più generale e complessa.
Intanto partiamo col dire che le madri che lavorano, soprattutto se per scelta (anziché per sola necessità) e se svolgono un lavoro che piace, hanno maggiori probabilità di sentirsi gratificate, in quanto il lavoro può rispondere al desiderio di realizzazione personale che non sempre può essere completamente soddisfatto e appagato dalla maternità, in quanto la vita di una persona (donna o umo che sia) non si circoscrive solo alla genitorialità.
Le ricerche scientifiche condotte da due università statunitensi di Penn State e Akron su 2540 donne, hanno evidenziato, in linea con molti altri studi nel settore, l’impatto positivo del lavoro sulla serenità delle donne madri, come fu pubblicato dal New York Times nel 1984 in occasione di un confronto in termini di serenità e soddisfazione personale fra madri lavoratrici e madri casalinghe.
Infatti il lavoro costituisce uno stimolo potente sia per la propria autostima sia per l’umore, a parte momenti e condizioni particolari di stress, in quanto rappresenta un’opportunità per confrontarsi con gli altri, conoscere nuove realtà, ricevere riconoscimenti e apprezzamenti dall’esterno, fare qualcosa che piace o che interessa e prendere coscienza concretamente delle propria capacità e delle proprie risorse al di fuori del contesto sicuro e protetto della dimensione familiare.
Pertanto se il lavoro, quando non troppo stressante e non vissuto come un obbligo, è motivo di gratificazione per le donne, rendendole madri potenzialmente più appagate, di conseguenza è auspicabile pensare che questo possa indirettamente fare bene anche ai figli, in quanto madri serene hanno maggiori possibilità di crescere figli sereni… perché la serenità della madre “contagia”, in virtù di meccanismi di apprendimento sociale, anche i figli.
Le donne che lavorano sono anche madri che inevitabilmente non possono essere sempre onnipresenti, che devono saper delegare – almeno in parte – la cura dei figli affidandosi prima ad altri (nonni, tate, asilo) e poi ai ragazzi stessi, favorendo così lo sviluppo dell’autonomia e quindi dell’autostima nei figli. Infatti bambini educati e sollecitati ad essere autonomi, sono anche bambini più sicuri e consapevoli delle proprie capacità, meno ansiosi e paurosi.
Mamme che lavorano, sono mamme che escono dal nucleo ristretto familiare che, seppur bello, caloroso ed emotivamente coinvolgente e sicuro, a lungo termine e soprattutto se vissuto in modo esclusivo, rischierebbe di essere limitante. Al contrario, il lavoro rappresenta l’occasione, come si diceva, per conoscere e confrontarsi con altre situazioni e persone, quindi costituisce motivo di arricchimento professionale, personale, sociale, affettivo e mentale che indirettamente costituisce uno stimolo importante anche per i figli, sia in virtù di racconti e notizie che mamma e papà portano sia perché spronati ad aprirsi a loro volta all’esterno e ad essere curiosi verso l’altro e il diverso.
I genitori che si impegnano a casa come anche fuori col lavoro, sono anche un validissimo modello di apprendimento per i figli: vedere che tutte le mattine mamma e papà si alzano per andare al lavoro, talora anche a costo di tanto sforzo e fatica, rappresenta un ottimo insegnamento per il bambino che, a sua volta, troverà naturale fare come loro, ovvero impegnarsi prima nello studio e in futuro, a sua volta, nel lavoro, proprio perché ha ricevuto un imprinting in questa direzione.
Infine la nuova generazione di bambini e ragazzi che crescono in una famiglia in cui entrambi i genitori sono impegnati outside e magari pure in casa, in cui quindi sia mamma che papà hanno una loro dimensione professionale individuale e al contempo partecipano entrambi alle attività e al ménage domestico e familiare, introietta un modello di coppia e di famiglia finalmente diverso rispetto a quello passato, centrato su un maggior equilibrio e sul fatto che entrambi i generi possono avere le stesse possibilità e assolvere agli stessi impegni, secondo dinamiche più eque e orizzontali, in cui la donna non è più succube e/o dipendente dall’uomo.
Pertanto sebbene gli schemi sociali convenzionali continuino a vedere nella scelta di lavorare da parte della madre, un potenziale fattore di rischio per la crescita serena dei figli, ci sono dei sufficienti motivi per dubitare che queste credenze popolari siano ben fondate e veritiere e anzi, validi presupposti per ipotizzare il contrario…