Annina Vallarino è l’autrice del libro “Il femminismo inutile. Vittimismo, narcisismo e mezze verità: i nuovi nemici delle donne“. In quest’opera, Vallarino critica quello che lei definisce il “neofemminismo” contemporaneo.
Vallarino sostiene che il neofemminismo, in molte delle sue espressioni attuali, si sia allontanato dagli obiettivi originari del femminismo di emancipazione e uguaglianza. Secondo l’autrice, questo nuovo corso è caratterizzato da: Vittimismo: Il neofemminismo tenderebbe a promuovere una cultura della vittimizzazione, in cui le donne vengono presentate in un ruolo passivo e oppresso, anziché incoraggiate all’autonomia e alla forza. e Narcisismo e femminismo performativo:
L’autrice critica un femminismo che si concentra eccessivamente sull’immagine e sulla performance pubblica (spesso sui social media), piuttosto che su questioni concrete e sostanziali. Retorica “falsamente scientifica”: Nel libro vengono messi in discussione termini come “mascolinità tossica” e “cultura dello stupro”, considerati dall’autrice espressioni eccessivamente generalizzanti o fuorvianti.
In sintesi, Annina Vallarino vede che il neofemminismo anziché portare avanti l’emancipazione femminile, rischia di confinare le donne in un ruolo passivo e di rappresentare un regresso sul piano politico e culturale. Il suo libro intende scuotere le fondamenta del femminismo contemporaneo, proponendo una riflessione critica e controcorrente.
Abbiamo voluto intervistarla per chiarire le posizioni da lei espresse nel libro.

Come è nato il libro e perché? Da sue esperienze in Inghilterra o in Francia dove risiede adesso?
Il libro è il frutto di anni passati a chiedermi cosa significasse essere una donna con una coscienza di sé – un percorso che mi ha portata dalla provincia italiana a Londra fino alla Francia, scoprendo lungo la strada che forse gran parte di quello che credevo di dover essere, dire e pensare per qualificarmi come “evoluta” era precisamente ciò che mi stava rendendo meno libera e forte.
Da giovane, il femminismo per me significava principalmente due cose: libertà e uguaglianza (non eguaglianza, sia bene). Leggevo anche i femminismi più ideologici – radicale, della differenza – ma
ma covavo già un certo sospetto verso le dottrine che non ammettono dubbi.
Poi l’Italia dei primi Duemila, con il suo femminismo tutto particolare che divideva il mondo femminile in due categorie morali: le brave ragazze da una parte, le “donne da poco” (le Olgettine di
Berlusconi) dall’altra. Come se la libertà femminile si misurasse in unità di rispettabilità.
Valeria Ottonelli, con il suo libro illuminante, mi ha aiutato a navigare in quelle acque torbide. Il vero shock è arrivato a Londra. Mi sono trovata catapultata nell’era del neofemminismo angloamericano. All’inizio è stata una seduzione totale: così (apparentemente)articolato, così consapevole.
Ma poi ho iniziato a soffocare. Ovunque guardassi, c’era oppressione. Il mondo era diventato per me – donna libera, istruita, con una professione – un campo minato.
Mi sono ritrovata a sentirmi una derelitta. Mi chiedevo: “Davvero questo è quello che vuol dire essere una donna evoluta? Svegliarsi già arrabbiate? Prendere il spazio alle altre, tanto da definirsi sempre vittime? E quando ci prendiamo la responsabilità delle nostre scelte?”
Con il MeToo è arrivata anche una mercificazione della sofferenza che mi ha fatto rabbrividire. Essere vittima era diventato una forma di capitale sociale. Il dolore delle donne si era trasformato in
moneta di scambio.
È stato allora che ho capito: dovevo cambiare rotta. Ho scoperto Christina Hoff Sommers, Camille Paglia, Caroline Fourest, Elisabeth Badinter e molte molte altre. Ho letto i pensieri ribelli di alcune
grandi intellettuali del Novecento. Donne che mi hanno ricordato che
la libertà non si costruisce di certo negli slogan e nella retorica.
In cosa è cambiato il femminismo che oggi stiamo vivendo? Più singolo e meno collettivo?
Il femminismo storico aveva quella qualità brutale delle cose necessarie: era affamato, disperato, urgente. Come quando hai davvero bisogno di pisciare e non ti importa se il bagno è sporco – devi solo entrare e fare quello che devi fare.
Parlare di “un” femminismo è ovviamente un errore di prospettiva – è frammentato in mille rivoli. Quello più visibile, quello delle pop star e degli algoritmi, è diventato una sorta di breviario dove il “patriarcato” spiega ogni inconveniente dell’esistenza e dove il culto dell’io è ormai assurto a religione di stato.
Nelle donne del passato – quelle che hanno davvero conquistato spazi, che hanno aperto strade – riconosco una dignità, una determinazione che oggi sembriamo aver smarrito nell’autocompiacimento e in un individualismo che produce solo rumore. Quelle donne non avevano bisogno di proclamare la propria forza ogni cinque minuti sui social: la dimostravano, semplicemente.
Dovremmo tornare a occuparci di comunità, di collettività, di quegli asili nido che mancano alle donne che vogliono lavorare ed essere madri contemporaneamente.
Quanto l’entrata in gioco di realtà diverse da quelle prettamente femminili ha cambiato i tratti di questo movimento?
Come ho detto, parlare di ‘movimento’ è riduttivo. Esistono realtà, anche in Italia, che si definiscono transfemministe e intersezionali, identificando nell’uomo bianco occidentale il nemico
principale. È un’impostazione altamente ideologica in cui si smarrisce lo scopo originario.
Quanto la libertà di autodeterminazione diventa licenza?
Quando l’autodeterminazione si trasforma in articolo di fede, scivola inevitabilmente verso l’irresponsabilità e l’individualismo sfrenato. Come se bastasse che una scelta appartenga a una donna perché automaticamente si nobiliti, si faccia carica di significato per l’intera comunità – Hadley Freeman ha scritto al riguardo un pezzo illuminante. La libertà senza confini morali o sociali non è emancipazione, è semplicemente caos. E io vedo le ragazze d’oggi davvero confuse.
Il vero problema emerge quando si erige un tabù attorno a qualsiasi riflessione critica sulle conseguenze delle nostre decisioni, che siano private o pubbliche. Prendiamo la pornificazione della nostra società: io sono contraria alla censura, per carità, ma mi pongo alcune domande. Quando vedo ragazze che dicono di aver fatto sesso,
uno dopo l’altro, con mille uomini in sole ventiquattro ore per costruirsi una carriera mediatica e su OnlyFans – e tutto questo viene benedetto in nome del femminismo e dell’autodeterminazione – non posso fare a meno di chiedermi: ma davvero ci beviamo questa storia?
A me sembra che stiamo assistendo a un’operazione di marketing travestita da rivoluzione. Qui c’è un discorso sociale e collettivo da fare, eccome: su una società che consuma questi spettacoli con totale indifferenza, su uomini che fanno la fila per partecipare al grande consumo di corpi altrui, su donne che scelgono di trasformare
la propria sessualità in prodotto commerciale fino al limite. Non è moralismo, è semplicemente chiedersi: dove stiamo andando?
Quanto un uomo che si dice femminista possa esserlo realmente?
Un uomo può essere alleato delle donne, ovviamente: può sostenere la parità, impegnarsi contro le discriminazioni. Ma quando sento un uomo definirsi ‘femminista’ – per quanto ho vissuto e visto – spesso
avverto qualche meccanismo nascosto. Un opportunismo sociale ben calibrato, oppure un bisogno di assolvimento che puzza di cattiva coscienza.
Gli uomini davvero utili alla causa delle donne sono spesso quelli che non sentono il bisogno di etichettarsi. Agiscono, semmai. Senza proclami, senza quella sottile soddisfazione di chi si sente dalla
parte giusta della storia.
Ho visto troppi oggigiorno definirsi femministi o dalla parte delle donne e usare un paternalismo vittimistico con esse da farmi preferire il misogino dichiarato, almeno so chi ho davanti.
Quanto il femminismo attuale sia autoindulgente e invece di occuparsi di grandi temi si limiti a condannare il fischio di un passante?
Credo e spero che quel momento di cretinizzazione collettiva di cui parlo nel mio libro sia finalmente alle spalle. Il MeToo ci ha condotti in una fase dove ogni lamento monopolizzava le prime pagine e il dibattito pubblico per settimane intere. Una sorta di inflazione del dolore che ha finito per svuotare di senso persino le rivendicazioni più legittime.
Ora vedo piuttosto – e in qualche modo lo avevo anticipato – un ulteriore smarrimento per quanto riguarda i diritti femminili, una polarizzazione che ha generato, come per reazione chimica, una corrente populista di resistenza. Era inevitabile, questa risposta: ogni azione produce sempre la sua uguale e contraria reazione,
soprattutto quando l’azione originaria ha perso misura e discernimento.
Mai come ora, dunque, mi sembra che ragazze e donne si trovino smarrite in un territorio di nessuno: da un lato un neofemminismo sconnesso dalla realtà, dall’altro una forza di resistenza che vorrebbe portarle indietro a un passato che non c’è più e che fa altrettanto danno.