di Alonso Ruispalacios
con Raúl Briones, Rooney Mara, James Waterson, Anna Díaz
scritto da Alonso Ruizpalacios
basato sulla pièce “The Kitchen” di Arnold Wesker
fotografia di Juan Pablo Ramírez
nelle sale dal 5 giugno
Nel nostro immaginario di clienti, incoraggiati da decine di programmi televisivi dedicati al cibo, ci aspettiamo che una cucina sia più asettica di una sala operatoria, più elegante di un negozio di lusso, silenziosa come una cattedrale gotica in cui solo il grande sacerdote, lo chef, ha diritto di parola. Niente di più lontano da questo ambiente patinato per la cucina o forse sarebbe meglio definirlo un retrobottega, del ristorante The Grill, in Times Square, in piena Manhattan, al cui interno è ambientato un film che già ha fatto parlare molto: Aragoste a Manhattan (La cocina, il titolo originale).

Fumano tutti, regna la più totale confusione, i piatti passano di mano in mano senza cura, cuochi e camerieri litigano ogni volta che si guardano in faccia, capita persino che una coppia si lasci andare a effusioni nella cella frigorifera lasciando imbarazzanti tracce erotiche sui quarti di bue. Non così grave, visto che il più delle volte la carne viene cotta.
Insomma, più che una cucina, sembra di vedere la stiva di una nave di bassa categoria.
Sta dalle parti di The menu, il recente horror satirico con Anya Taylor-Joy e Ralph Fiennes o anche della serie tv The Bear e persino per il coté fortemente grottesco ricorda The party, l’ultimo lavoro di Roman Polanski. Lontano ma al tempo stesso vicino al realismo, il film, tratto da una commedia teatrale, è una azzeccata (e disturbante) metafora del mondo contemporaneo con tutti i suoi guasti, distillata nell’ambiente claustrofobico, sporco, invaso da odori e vapori della cucina di un ristorante di successo, che il venerdì sera serve fino a 3mila pasti. Niente prelibatezze, piuttosto junk food travestito con il carapace dell’aragosta

Il regista messicano, già autore di film interessanti, ci racconta che non c’è poi una grande differenza fra scavare carbone in una miniera dell’Ottocento inglese e spignattare nella ricca Manhattan, perché le condizioni e le origini dei lavoratori sono molto simili. Anche la fatica, la paga e poche speranze di riscatto

Nel film corale spiccano Pedro (uno scatenato Raúl Briones) e Julia (una dura e dolcissima Roony Mara), lui messicano, cuoco, lei americana, cameriera, hanno una burrascosa ma molto passionale storia d’amore. Lei è incinta e vuole abortire, lui la ama e sogna un futuro con tanti marmocchi e forse ha rubato dei soldi dalla cassa per lei. Le loro scorribande fra pignatte e aragoste, fra brodi e distributori della Coca Cola che si rompono e allagano tutto mi hanno fatto pensare a certe sequenze di West Side Story. Intorno a Pedro e Julia, tutti gli altri, in una babele di lingue e di problemi che sono pretesti per incessanti screzi.
La tensione si placa solo nel vicolo dove i lavoranti si riposano nelle pause e chiacchierano fra di loro raccontandosi sogni teneri e surreali. Perché all’assenza di futuro nessuno si rassegna.

Ci sono le aragoste, ci sono i piatti che volano in aria e si frantumano sul pavimento sporco, ci sono i cazzotti veri e mimati e i rimbrotti del boss che si chiede cosa mai voglia di più da lui quella masnada di diseredati. In fondo li paga e anche se sono senza documenti che importa: una tessera della previdenza sociale si può comprare di sfrodo al mercato nero per 50 dollari. E magari, prima o poi, si potrebbe conquistare la tanto agognata green card.

Girato tutto in un luccicante bianco e nero, con riprese funamboliche, veloci come si addice al ritmo frenetico di una cucina nelle ore di punta, il film segue un’idea di cinema precisa che mette il grottesco al servizio della denuncia sociale: il caos di quel locale maleodorante non assomiglia forse tantissimo al mondo in cui viviamo e non presenta le stesse contraddizioni?
Insomma, come raccontare le caste e la lotta di classe friggendo un hamburger e tagliando un pollo.