di Mike Leigh
con Marianne Jean-Baptiste, Michele Austin, David Webber, Tuwaine Barret
nelle sale dal 29 maggio
Mike Leigh, regista inglese di lungo corso, ha spesso messo al centro dei suoi film le relazioni fra le persone con una spiccata predilezione per i personaggi femminili. Anche in quest’ultimo lavoro, che ha scritto e diretto, c’è una donna. Che per tanti versi si discosta da quelle raccontate in passato. Un po’ perché il film è ambientato completamente nella comunità black londinese, ma soprattutto perché non si concede neppure un alito di speranza, neppure un sorriso che allenti la tensione. Trasmette un po’ di angoscia il pensiero di un uomo di 82 anni alle prese con una storia come questa ed è inevitabile chiedersi dove sia nata l’ispirazione.

Ma era giusto così: è quello che voleva. Si percepisce in ogni fotogramma che è esattamente questo il personaggio che voleva portare sullo schermo: una donna, moglie e madre, di mezza età, così disperatamente infelice da trascinare nella sua cupezza tutti quelli che la circondano. Non solo i familiari ma anche chiunque incroci nella sua esistenza.

Conosciamo Pansy nella sua bella casa londinese, fredda, bianca, moderna, pulitissima e con un giardino curato. Nulla è fuori posto e l’ossessione della donna intenta a pulire ogni pertugio quando facciamo la sua conoscenza è il primo tratto nevrotico che colpisce lo spettatore. Assieme alla sua feroce aggressività, rovesciata anzi vomitata contro tutti: sul figlio obeso e privo di ambizioni che ciondola fra la sua stanza e vuote passeggiate, sul marito, onesto lavoratore, rassegnato all’odio che la moglie gli riserva in ogni istante.

Non si salva la commessa del supermercato, l’uomo incontrato al parcheggio che gentilmente le chiede se stia lasciando il posto libero e neppure la dentista, tutti bersagli del suo furore immotivato, unico sfogo per la sua infelicità senza desideri.
Pansy non ragiona, non si pone domande. Se parla è solo per inveire contro il prossimo e quando racconta le liti con gli sconosciuti, le manipola con versioni paranoiche. Non c’è speranza per lei, non c’è riscatto, non c’è cambiamento. La sorella Chantelle, solare e indipendente, lavora come parrucchiere a chiacchiera amabile con ogni cliente. Sa ridere e scherzare con le due figlie e i loro siparietti sembrano giochi di grandi amiche.

Chantelle capisce la depressione di Pansy ma non sa cosa fare se non mostrarle un affetto che non chiede di essere ricambiato. Ma non basta. Niente può fermare la china autodistruttiva di Pansy che trova una pausa solo cercando di dormire, chiudendosi al mondo. Vuole essere lasciata in pace, essere dimenticata, forse sparire.
Non c’è retorica nel film, non c’è pietismo, non ci sono banali spiegazioni psicologiche. Certo, Pansy ha perso la madre da giovane, certo il suo matrimonio è un fallimento, ma tutto questo non giustifica la sua devastazione. Almeno agli occhi del pubblico così come agli occhi di chi le sta intorno. Mike Leigh infatti ha scelto la strada della soggettività: il racconto è concentrato solo su Pansy e sul suo malessere, così come Chantal Ackerman puntava la cinepresa sulla perfetta casalinga Jeanne Dielman seguendo la sua inesorabile caduta. Impietoso come certi ritratti di Ingmar Bergman, tagliente come era Cassavetes con le sue protagoniste.

Quella di Pansy è una storia privata, è la tetragona chiusura a ogni dialogo, la negazione di ogni salvezza, l’impossibilità di una resurrezione. Il suo è un male privato e profondo, non dipende dall’emarginazione sociale, non ci sono tragedie catastrofiche nella sua vita. Anzi spicca il benessere raggiunto con il lavoro della comunità black. All’infelicità non servono giustificazioni.

Scritto in modo magistrale, recitato dalla protagonista Marianne Jean-Baptiste con una ferocia rara e un’adesione dolorosa al personaggio, Scomode verità è un film bellissimo di straziante disperazione. La vita non sempre è una commedia e non sempre può regalare quel lieto fine che fa riprendere il fiato dopo il dolore.