un film di Matthew Brown
con Anthony Hopkins, Matthew Goode, Liv Lisa Fries, Jodi Balfour, Jeremy Northam
Tratto dall’opera teatrale Freud’s Last Session, di Mark St. Germain
Dal 28 novembre nelle sale
Freud lo immaginavo più silenzioso. Una supposizione legata allo stereotipo dello psicanalista che ascolta e prende appunti. Lo immaginavo controllato, razionale, imperturbabile. Invece Mark St. Germain nel suo testo teatrale racconta un Sigmund Freud completamente diverso, fermato negli ultimi mesi di vita, a Londra, minato da un doloroso cancro alla mandibola (proprio lui che credeva nel potere della parola). Un Freud che è tutto fuorché tranquillo, possessivo nei confronti della figlia Anna che tiranneggia, aggressivo con C.S. Lewis che invita a un colloquio.
Ora, per chi non collega immediatamente il nome al personaggio, ricordiamo che Lewis è l’autore delle Cronache di Narnia, ai tempi teologo e docente di Oxford. In realtà non si sa se i due si siano mai visti, sebbene il padre della psicanalisi intrattenne un rapporto epistolare con un professore di Oxford che poi incontrò.
Che si trattasse di Lewis è solo una licenza poetica che offre il pretesto all’autore del testo per mettere in scena uno scambio di opinioni realistico: lo scontro incontro fra due personalità possenti, convinte nel profondo delle loro opinioni e molto onesti nell’esprimerle e difenderle.
Dal testo teatrale ecco ora il film, con Anthony Hopkins che giganteggia nel ruolo di Freud e Matthew Goode (lo ricordate in Match Point?) che regge il confronto con dignità in quelli dello scrittore. L’impronta teatrale resta forte e tutto il fascino del film risiede nei dialoghi: troverà il suo pubblico fra chi conosce e ammira il padre della psicanalisi.
L’ipotetico incontro viene immaginato il 3 settembre 1939, data cruciale per la storia europea e mondiale: Regno Unito e Francia dichiararono infatti proprio quel giorno guerra alla Germania che aveva invaso la Polonia.
Freud invita Lewis a discutere sul rapporto fra fede e ragione. Fra i due contendenti uno crede solo nel potere della mente mentre l’altro abbraccia con emozione la certezza dell’esistenza di Dio. Una contro l’altra due figure complesse, tormentate al tempo stesso anche da vicende private. Freud stenta ad accettare l’omosessualità della figlia (che visse per 54 anni con la stessa donna) a cui lo lega un rapporto di dipendenza reciproca, mentre sull’altro versante l’anglicano Lewis non si è rappacificato con la grande storia d’amore vissuta con la madre di un amico che ha visto morire al fronte.
Un cinema tutto di parola affidato a due grandi attori. Nello scontro inevitabilmente si impone Anthony Hopkins che al padre della psicanalisi presta tutto il suo furore e chissà se davvero il razionale Sigmund, pur se minato da un dolorosissimo tumore, fosse davvero così irruente.
Film di nicchia e molto british, dove la complessità delle vite dei protagonisti e i loro dubbi, racchiusi nella cornice dell’appartamento buio di Freud, diventano metafora della cupezza degli anni che aspettano l’umanità.