Molti rimarranno sorpresi nel porsi la domanda se il burnout, definito dall’OMS nel 2019 un fenomeno occupazionale derivante da uno stress cronico e mal gestito, riguardi prevalentemente il sesso femminile.
Burnout, termine anglosassone che rimanda all’italiano bruciato, scoppiato, è stato riconosciuto nel maggio del 2019 quale sindrome caratterizzata da quell’esaurimento di forze con perdita della concentrazione e caduta della performance associati a disinteresse per la propria attività, riscontrati di frequente in ambito sanitario o nei manager di alto livello, la cui incessante applicazione al lavoro sconfina nel Workaholism.
Meno noti sono i burnout degli insegnanti, dei genitori e dei lavoratori in smartworking con evidenti difficoltà a far valere il proprio diritto alla disconnessione.
Cosa hanno in comune tutte queste categorie? L’importante componente femminile; eccezion fatta per i vertici aziendali cui le donne non riescono quasi mai ad avere accesso, in parte perché escluse da sempre dai giochi di potere, ma anche perché innegabilmente sfavorite dal doppio lavoro famiglia-ufficio o dalla usurante necessità di dover lavorare il triplo per non vedersi riconoscere la parità coi colleghi uomini.
Sì, il burnout è donna, anche per quel portato tradizionale per cui soprattutto a lei si chiede di curarsi dei familiari, dai figli piccoli ai nonni, sino al marito neoliberisticamente in corsa per il successo, dietro cui ancora nel 2022 c’è fin troppo spesso una “grande donna” che si fa piccola, invisibile, per accontentare tutti e arrivare a tutto, sino a cortocircuitare bruciando se stessa.
Se però il burnout è donna, femmina è anche la soluzione, secondo me.
C’è una ancestrale saggezza nel corpo femminile, in quel susseguirsi dei cicli ormonali che rimanda all’avvicendarsi delle lune, al rincorrersi delle maree e al succedersi delle stagioni, a quell’appartenere alla natura dell’essere umano che nella donna si compie nella facoltà di partorire la vita in nove mesi, non in due, come imporrebbe l’efficientismo postcapitalistico delle moderne società globalizzate, se solo potesse.
Negli ultimi anni si sta assistendo al progressivo incremento del fenomeno delle dimissioni di tante persone che non riescono a sostenere ritmi di lavoro sempre più frenetici e a vivere vite pensate per dei meri consumatori di merci il cui unico valore è il Dio Danaro.
Tutt’attorno aleggiano sinistri gli aliti pandemici e i bagliori delle guerre degli uomini, alcune delle quali si consumano sul corpo e persino sui capelli delle donne che dovranno combattere, unirsi e lottare ancora, affinchè possano vedersi riconoscere anche economicamente il merito di tutto il lavoro che svolgono, soprattutto quello che non si vede, di cura dei figli e dei familiari, potendo scegliere di dedicarsi solo a quello o richiedendo aiuti efficaci e piena parità salariale e di mansione qualora decidano di impegnarsi anche nella società del lavoro.
E’ la donna che per prima s’accorge e che sostiene il padre piegato dal lavoro usurante o il compagno costretto a turni massacranti, il figlio perso negli infiniti stage sottoretribuiti, la figlia incinta che a motivo di questo perde il lavoro.
Si dice che chi educa una bambina educhi un popolo; ebbene, si deve puntare, fin dalla prima infanzia, sulla consapevolizzazione del valore della donna, sia che voglia essere madre di figli, che di familiari, pazienti o progetti, perché una madre lo sa che per tutto c’è un tempo giusto, come per cuocere il pane o il far fiorire le rose e che ci vuole collaborazione e rispetto per coordinare una famiglia come una comunità.
E allora nessuno si brucerà più per un lavoro che è un correre come il criceto sulla ruota, ma ci sarà la rivoluzione del rispetto della nostra umanità, dell’equa ripartizione, del momento del riposo e di quello di qualità. Solo così, rallentando, ci si salverà.