DRESS CODE E LIBERTA’ VESTIMENTARIA

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“Tra i popoli nudi l’immoralità è assai meno diffusa che tra quelli vestiti”
Encyclopaedia Britannica

di Nico Conti

L’antico proverbio afferma che l’abito non fa il monaco, ma nulla ci dice della monaca e forse questa imprecisione vuole affermare qualcosa circa la nostra libertà vestimentaria.
Si parla sempre di nuovi diritti e non so se questo possa essere contemplato e con quali limiti, come tutti gli altri diritti: ci si può vestire come si vuole?
L’abito non fa il monaco la dice lunga sul fatto che non dobbiamo giudicare le persone dall’esteriorità, ma se c’è una cosa che facciamo quotidianamente è proprio quella di giudicare le persone da come si presentano.
Personalmente non amo le mode giovanili, come tatuaggi, piercing, pantaloni con il cavallo basso e altri aspetti dei quali non sono neanche molto ben informato.
Diciamolo: le mode giovanili sono sempre state brutte (e ribelli) per definizione.
Però, non saprei secondo quale norma o regola morale e/o di rispetto potrei impedire questo look (che in inglese significa sembrare) solo perché mi disturba o perché i miei riferimenti estetici sono la Gioconda di Leonardo o le Bagnanti di Picasso.
Evidentemente la nostra tribù occidentale non ha tra i suoi costumi quello di girare nudi in pubblico, e vi è una distinzione abbastanza chiara tra l’abbigliamento pubblico e quello privato con rare eccezioni (ad esempio i campi nudisti, che in quanto luoghi separati non fanno altro che confermare la regola del dover essere vestiti/coperti).
E, a confondere le idee, vi sono anche rare eccezioni nell’eccezione alla regola: in pieno centro a Berlino vi è un bellissimo parco, dove si incrociano ampie strade cittadine, e dove si possono incrociare persone nude sui prati, mentre passeggi sul marciapiedi, poco distante da loro. Nessuno ci fa caso tranne chi viene da fuori.
Pochi metri fuori da quel parco pubblico, nel centro di Berlino saresti in arresto se decidessi decidere di fare shopping nudo.
La differenza tra i due luoghi? assolutamente nessuna. L’essere nudo comporta o meno offesa al pudore solo in base alla tua “geolocalizzazione”: il parco non è meno pubblico del centro città e non è un nemmeno un campo nudista ben delimitato, segnalato e occultato allo sguardo di chi passa accidentalmente.
Dunque il pudore, il rispetto e la decenza sono convenzioni sociali abbastanza flou, e che non solo sembrano confuse ma che nemmeno vogliamo precisare. Questa necessità (o desiderio) nel voler mantenere la regola vaga è sospetto.
In gran parte del mondo islamico la donna porta il velo, il burqua o il chador, perché non portarlo sarebbe un atto di non rispetto e sarebbe indecente.
In occidente e in particolare in Francia il dibattito è stato molto ampio, per vietare l’uso in nome del rispetto dell’uguaglianza uomo donna.
Ma anche in questo caso, ad essere sinceri, non me la sentirei di impedirlo tout-court, a meno che quel velo non sia imposto, mentre in Francia è sempre più forte la tendenza a vietarlo e in particolare nelle scuole.
E, stabilire se il velo di una donna che vive in occidente sia imposto o sia una libera scelta culturale in difesa delle tradizioni non è così semplice o automatico. Molte di queste supposte libertà nel volere indossare il velo come rivendicazione della propria tradizione in realtà possono nascondere imposizioni talvolta per nulla evidenti.
Tutta questa ampia introduzione sul “comune senso del pudore” visto come un tabù sociale piuttosto che una legge l’ho sviluppato per giungere a un fatto di (in)giustizia di questi giorni.
La corte di Appello di Milano ha appena deciso di ridurre la pena ad un uomo accusato di sequestro e stupro della ex convivente con la motivazione che “era sconvolto dalla condotta troppo disinvolta della donna”.
Non dovremmo neanche sottolineare che il sesso senza consenso è sempre stupro (personalmente ho appena firmato l’appello di Amnesty International), ma vorrei restare nel tema vestimentario, senza disperdermi.
Spesso gli stupri hanno trovato una qualche giustificazione e una riduzione della pena per il fatto che la donna (la vittima) “se l’è cercata”.
In altre parole per il suo modo di essere e di vestire da vittima è passata al ruolo di colpevole: avrebbe violato un comune senso del pudore, avrebbe esibito il suo corpo e in altre parole l’atto osceno non è più quello dello stupratore ma della donna violata.
Il 23,4% della popolazione italiana è convinta che “le donne possano provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire” e un buon 6,2% è convinto che “le donne serie non vengono violentate”.
Molti ritengono che la violenza sessuale non abbia molto a che fare con i comportamenti sociali e con termini ambigui come il “comune senso del pudore”, ma questi numeri sembrano dirci il contrario.
Cosa significa una donna seria, cosa significa un vestito provocante? Siamo nell’ambito di una cultura specifica, e se la cultura è distorta nel senso della disuguaglianza dove la si può correggere? Il luogo ideale dovrebbe essere la scuola.
Un tempo si faceva l’ora di educazione civica. Oggi?
Oggi può capitare in un liceo di Roma, il liceo Socrate (e chissà in quanti altri), che l’argomento sia la lunghezza della gonna di una studentessa perché i banchi nuovi non sono ancora arrivati e da sedute sulle sedie “si vede troppo”.
Il fatto curioso è che sia stata la vicepreside, una donna, a indicare alla studentessa minigonnata che “al prof cade l’occhio”.
Evidentemente siamo nell’ambito di un discorso di violenza (verbale) di genere dove il prof che mette in atto una violenza (comportamentale) su un minore, passa a vittima di una ragazza poco seria o facile.
Pare che la vicepreside questa frase infelice sul prof l’avesse ripetuta, con altre ragazze, in altre classi: quindi non un incidente verbale ma una sottolineatura culturale, una direttiva su come vestire in modo dignitoso e rispettoso.
Molti hanno sottolineato che pur nell’errore di come si è espressa la vicepreside, a scuola si debba mantenere un certo decoro che il luogo richiede, evocando a mio avviso una visione quasi religiosa.
L’ho scritto all’inizio: tutti i diritti hanno limiti secondo le società di appartenenza, quindi anche quello vestimentario immagino debba averne.
Ma quando chiedi a chiunque di precisare con fatti pratici come stabilire cosa è corretto, decoroso e rispettoso nei vari ambiti, e cosa no, la situazione diventa estremamente complicata. Molti che affermano che a scuola si deve andare vestiti in un certo modo, adeguatamente, poi non sanno tradurre concretamente quale è il limite per ciò che non deve essere fatto e perché.
A che misura una gonna diventa troppo corta? Cosa fa sì che quel centimetro in più o in meno sia o non sia adeguato?
Evidentemente dietro all’impossibilità di tradurre ciò in regole semplici si nasconde un non detto, anzi un non dicibile. È un silenzio significativo.
Tutto diventa al limite del ridicolo quando si deve stabilire un dress-code, e denso di implicazioni che hanno il senso di un tabù tribale.
Solo un fatto è evidente, che nella nostra tribù occidentale (in genere) non si va in giro nudi.
Un corollario potrebbe essere che non sia decoroso mostrare indumenti intimi. Ci sta.
Tolte queste regole semplici tutto il resto diventa di assai difficile regolamentazione, se non si vuole limitare la libertà vestimentaria di una persona (uomo, donna, transgender, agender, etc.).
Forse dobbiamo stabilire altre regole civili in un luogo come la scuola (e tutti gli altri):
1) il rispetto per la persona diversa, e per la diversità,
2) il rispetto per la libertà di espressione, delle mode, e degli stili.
3) il rispetto del principio di non omologazione (non vogliamo tornare alle uniformi),
4) il rispetto degli adulti verso i minori (vogliamo prof “miopi”),
5) il rispetto dei contenuti più che della forma.
Fatte queste scelte culturali, educative, potremo più facilmente stabilire la misura giusta per una gonna, se proprio è così importante.

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