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    Home»Costume e società»La felicità sostenibile
    Costume e società

    La felicità sostenibile

    Cinzia FiccoBy Cinzia Ficco06/03/2013Updated:17/06/2014Nessun commento7 Mins Read
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    di Cinzia Ficco

    La ricchezza di un Paese non si può misurare con il Pil. Lo afferma Maurizio Pallante

    da Voglioviverecosi.com

    “Se vai in automobile da casa al lavoro consumi una certa quantità della merce carburante. Quindi fai crescere il Pil. Se lungo il tragitto trovi code e intasamenti, ci metti più tempo, ti stressi di più, ma consumi più carburante, quindi fai crescere di più il Pil. Se credi che il Pil (Prodotto interno lordo) misuri il benessere non puoi arrabbiarti. Devi essere contento, perché stai contribuendo ad accrescere il benessere collettivo, e di riflesso, anche il tuo. Quando sei in coda devi sorridere. Se a causa dello stress ti distrai e hai un incidente, il costo di riparazione delle macchine incidentate lo farà crescere ancora di più. Per toccare il cielo con un dito occorre che come conseguenza dell’incidente ti portino in ospedale,  perché i costi del ricovero e delle cure comportano un’ulteriore impennata del Pil”.
    Sembra strano, ma è così. E la motivazione si scopre, leggendo “La felicità sostenibile” (Rizzoli), scritto da Maurizio Pallante, fondatore del Movimento per la decrescita felice.

    A sentire l’autore, classe ’47, che da anni si occupa di politica energetica e tecnologie ambientali, l’ambiguità nasce da una cattiva convinzione. “La ricchezza di un Paese- spiega- non si può misurare con il Pil, che è un indicatore monetario e che in quanto tale può quantificare solo le merci, gli oggetti e i servizi scambiati con denaro. Siamo convinti che, al contrario, la ricchezza di un Paese consista nei beni che vengono prodotti e nei servizi che vengono forniti. Non dovremmo più confondere il concetto di merce con quello di bene. Quindi dovremo anche cambiare il misuratore della ricchezza nazionale. E rincorrere una decrescita. Dove per decrescita si intende una riduzione volontaria della produzione di alcuni tipi di merci che si ritengono inutili o dannose”. Sì, perché la decrescita presuppone una valutazione qualitativa di ciò che si ritiene utile produrre, di quanto si ritiene utile produrre e di come si produce.

    Mette in discussione la validità del Prodotto Interno Lordo come strumento di valutazione del benessere. Quest’ultimo, infatti, si limita a misurare la quantità delle merci scambiate con denaro, “ma non è in grado- aggiunge l’autore- di dare la minima indicazione sulla loro utilità, sull’equità della loro distribuzione tra le classi sociali e i popoli, sulle conseguenze delle produzione nei tre momenti in cui interferisce con l’ecosistema terrestre: il prelievo delle risorse da trasformare in merci, i processi industriali con cui si realizzano queste trasformazioni, lo smaltimento degli scarti in cui le merci sono destinate a tramutarsi quando chi le ha acquistate decide di sbarazzarsene”.

    Un’economia fondata sulla crescita del Pil, fa capire Pallante, capovolge il rapporto tra produzione e consumo: non si produce per rispondere a una domanda, ma si deve consumare per poter continuare a produrre e si deve consumare per poter ottenere il reddito necessario a consumare. Attua quel processo che Pasolini definì una mutazione antropologica, fondata su uno stato di insoddisfazione permanente, di competizione esasperata, di nevrosi generalizzata. La crescita del Pil comporta il dominio delle cose sugli esseri umani.

    Al contrario, suggerisce Pallante: “Se noi popoli ricchi ci accontentassimo di consumare un po’ meno, saremmo meno nevrotici e ne guadagneremmo in salute, l’inquinamento si ridurrebbe” e ci sarebbero più risorse per i popoli poveri. “Ma se il benessere si continua a misurare con la crescita del Pil- ancora l’autore- il modello della crescita non viene criticato in quanto tale : ci si limita a criticare l’iniquità con cui vengono ridistribuiti i frutti”.

    E allora? Decresciamo per vivere meglio e per uscire dalla crisi, prodotta da una sovrapproduzione di merci che il mercato non riesce a smaltire. “In realtà la decrescita- si legge nel libro- non si limita a una mera diminuzione quantitativa del Pil. Non è una semplice diminuzione del tasso d’incremento, o un decremento di quel parametro, che misura il valore monetario delle merci scambiate, ma è la negazione della sua validità come indicatore di benessere perché basato solo su dati quantitativi, e di conseguenza, propone la necessità di introdurre criteri qualitativi nella valutazione delle attività economiche e produttive. Non è soltanto un meno, ma un meno come condizione necessaria per ottenere un meglio, o come risultato di un meglio. In questo senso non è un obiettivo, ma la definizione di un percorso per raggiungerlo. La strada del meno per raggiungere il meglio”.

    La decrescita del Pil come libera scelta può essere ottenuta agendo su tre fattori che hanno pari importanza e quindi vanno perseguiti contestualmente. Sviluppo di innovazioni tecnologiche finalizzate a ridurre progressivamente il consumo di risorse, l’inquinamento ambientale e la produzione di rifiuti a parità di produzione; la diffusione di stili di vita fondati sulla ricerca del benessere e non del tantoavere; una politica economica e una politica amministrativa che favoriscano l’adozione di tecnologie e di quegli stili di vita”.

    Un esempio? Ce lo dà chi, per esempio, cura un orto e autoproduce frutta e verdura. Quella persona mangerà in modo più sano, eviterà lunghe code per arrivare all’ipermercato, risparmierà, non inquinerà. Ci guadagnerà in salute. Contribuirà alla decrescita del Pil. “Infatti- chiarisce- saltando l’intermediazione monetaria, i beni autoprodotti non possono essere contabilizzati nel Prodotto interno lordo e quindi non lo faranno crescere”.

    Ma quanti sacrifici richiede questa inversione di rotta?“La decrescita del Pil che si ottiene riducendo la produzione e il consumo di merci che non sono beni- aggiunge Pallante- non richiede rinunce e migliora la qualità della vita. Offre un benessere non altrimenti ottenibile. Non è necessario far scendere in campo l’austerità, la sobrietà, la temperanza, la moderazione, che sono virtù inestimabili, valori trasformati in vizi dalla necessità di indurre ad acquistare compulsivamente le quantità crescenti di merci immesse sul mercato dalla crescita del Pil. Si richiederanno solo l’intelligenza. Il buon senso. E in questo senso, l’esempio sul modo di riscaldare le nostre case è illuminante. Basta leggere la pagina 37 per capire che il benessere termico è inversamente proporzionale alla crescita del Pil.

    Ma se immettiamo meno merci sul mercato, produciamo meno, rischiamo di far saltare posti di lavoro? “Le tecnologie della decrescita- replica il saggista – pagano i propri investimenti da sé, con denaro che consentono di risparmiare sui costi di gestione. E, inoltre, ridanno un senso al lavoro, perché non lo indirizzano, come fanno le tecnologie della crescita, a produrre quantità sempre maggiori di merci da buttare sempre più in fretta per produrne altre senza preoccuparsi della loro utilità e/o dei danni che creano, ma a produrre con un sempre minore impatto ambientale merci con una utilità specifica. A produrre merci che siano beni per chi le utilizza e non siano un male per la Terra”.

    Per lo scrittore, “riducendo il consumo di merci che non sono beni, il denaro che si risparmia deve essere necessariamente utilizzato per pagare salari, stipendi e profitti di chi produce, commercializza, installa, gestisce e fa manutenzione delle tecnologie che riducono il consumo di merci che non sono beni. Le tecnologie della decrescita sono in grado di ri-avviare un circolo virtuoso dell’economia, non solo della logica interna dei cicli economici- più produzione- ma anche per le conseguenze positive sugli ambienti e sulla vita degli esseri umani”.

    E’ una pericolosa illusione ipotizzare che si possa uscire dalla recessione riprendendo a fare quello che si è sempre fatto. Occorre aprire una fase nuova, esplorare una nuova frontiera. Solo così saremo felici. Certo, serve disintossicarsi e uscire da quella che Pallante chiama “la ruota del criceto. Cominciare, per esempio, a capire che: è importante sganciarsi dalla ideologia del nuovo come valore, e necessario collaborare, piuttosto che competere. Così si potranno capire i vantaggi che danno la banca del tempo, i gruppi d’acquisto solidali (gas), il cohousing.
    Tra i consigli per spendere meno e vivere meglio Pallante ne inserisce alcuni che si possono seguire subito: ridurre l’immondizia, i consumi di energia , l’uso dell’automobile, di carne.

    Dunque, la felicità di una persona o di una comunità può essere sostenibile, a patto di cambiare rotta. Quindi, dovremo subito cominciare a ribellarci all’imperativo che ci ha guidati nell’ultimo secolo- la crescita ad ogni costo, misurata con l’aberrante strumento del Pil- e stabilire un nuovo modello di sviluppo

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    Cinzia Ficco
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    Pugliese, classe ‘69, laureata in Scienze politiche, giornalista pubblicista, è responsabile del magazine www.tipitosti.it, il blog di chi non molla. Sposata, ha una bambina che si chiama Greta, si diverte a scrivere per lei racconti. Ha pubblicato Josuè e il filo della vita, Il re dalle calze puzzolenti, Tina e la Clessidra, con la casa editrice Edigiò. L’ultimo è Mimosa nel regno di sottosopra, pubblicato da Intermedia.

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