Simone Weil tra filosofia ed esistenza

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Storia e la filosofia di vita di Simone Weil (1909-1949) filosofa, insegnante, scrittrice, operaia, sindacalista, contadina, rivoluzionaria del concetto di vita, intesa come “attenzione, ascolto dell’altro”

Al nuovo Teatro Abeliano di Bari è stata ricordata la storia e la filosofia di vita di Simone Weil (1909-1949) filosofa, insegnante, scrittrice, operaia, sindacalista, contadina, rivoluzionaria del concetto di vita, intesa come “attenzione, ascolto dell’altro”. Insieme a Francesca Romana Recchia Luciani, autrice del libro “Simone Weil tra filosofia ed esistenza” (Ed. Pensamultimedia), l’hanno ricordata Italo Moscati, scrittore ed autore con Liliana Cavani di “una sceneggiatura per un film, mai realizzato”, Antonella Masi, Presidente del Centro di documentazione e cultura delle Donne di Bari, Maria Grazia Porcelli, docente dell’Università di Bari, e Fabrizia Galvagnano, produttrice del documentario “Un incontro con Simone Weil”, diretto nel 2010 da Juolia Haslett, opera ospitata da diversi Festival Internazionali e proiettato per la prima volta in Italia, proprio, durante l’incontro all’Abeliano.

Il libro della Recchia Luciani è un vero studio che restituisce tutta l’attualità di un originale figura di intellettuale del Novecento, senza inquadramenti riduttivi , ma con una forte intuizione di una intelligenza libera mossa dal rigetto di qualunque dialettica negativa, superando ogni barriera sociale, con una libertà di pensiero ed una spiritualità che la portavano a scelte “estreme”, ovvero di assoluta e totale condivisione della vita degli altri , in un rispetto di ascolto ed attenzione totale.
Dalla quarta di copertina del Libro-Sceneggiatura di Italo Mosati e Liliana Cavani , che non è tanto il racconto di un film da fare quanto la traccia del film più urgente da fare, si evince che Simone Weil, già trentacinque anni fa, si muoveva secondo un più scientifico metodo copernicano: l’intellettuale non sta al centro ma tra gli altri, tra la massa, e da quel posto non enuncia idee se non sperimentandone prima personalmente la credibilità.
Il cinema, nel non fare un film su Simone dimostra di essere in ritardo. Perdersi la conoscenza di un personaggio come Simone Weil significa perdere molti treni per comprendere la genesi e il nocciolo di tanta crisi ideologica di questo momento. Esiste solo una ragione del ritardo e della tirchieria con i quali vengono pubblicati da noi i libri di Simone: l‘arretratezza dei colti.

Dobbiamo dare atto a Simone Weil di avere provato già negli anni Trenta il malessere di chi, impegnato nell’ideologia rivoluzionaria, sentì che la sua vita non poteva essere spesa a fare il tribuno-poliziotto di sé e degli altri, ma andava se mai spesa a dare all’ideologia l’arricchimento della propria personale avventura ed esperienza diretta, vivendo di persona le condizioni dell’altro, e non provando a vivere, diventando operai fra gli operai, contadina fra i contadini, indigente far gli indigenti nel dopoguerra, passando dalle pene inflitte agli ebrei (visto che era di famiglia ebrea) per poi abbracciare la spiritualità della religione cristiana, nel suo ultimo periodo di vita, vivendone i principi in maniera fervida, forse troppo assillante, senza però accettare una adesione confessionale, monacale, che rigettava per le sue rigide regole contrarie al suo spirito libero.

Dalla quarta di copertina del libro di Francesca Romana Recchia Luciani, si legge:
“L’intreccio fra Filosofia ed esistenza, insieme alla raffinatezza delle sue analisi teoriche, alla inusuale capacità di attenzione e penetrazione interpretativa, all’intransigenza etica nei confronti di se stessa, alla ricerca spasmodica di “assoluto” hanno fatto di Simone Weil una testimone fondamentale dell’umanità che non smette di interrogarci. Un tempo tragico.”
L’insegnamento quindi che lascia è di assoluta condivisione dell’altro con attenzione e massimo ascolto, partecipandone la vita. Personalmente però devo dissentire dalle sue scelte finali di vita, quando , dopo la guerra, malata si è lasciata morire di stenti e di fame per essere uguale agli altri che vivevano in condizioni disagiate del momento. Ebbene, personalmente, non condivido quest’ultimo periodo della sua vita che, abbracciando la spiritualità religiosa, l’ha condotta a privare a soli 34 anni, una mente così eccelsa e di grande insegnamento.

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Profilo Autore

Luciano Anelli

Nato a Bari, nel 1947, Laureato in Ingegneria trasporti, dopo 11 anni trascorsi a Roma a progettare e costruire Aeroporti in tutta Italia per conto del Ministero dei Trasporti, si è lanciato nell’avventura gestionale in Puglia, costituendo la Società di Gestione aeroportuale. Dopo 9 anni trascorsi come Direttore Generale della SEAP-SpA, passa a fare il Libero professionista, consulente nel settore aeroportuale. Si inserisce nella Federmanager, Federazione dei dirigenti di aziende industriali, diventando Segretario della sede di Bari, consigliere nell’Unione Regionale, e qui anche come Direttore della rivista “Dirigenti in Puglia. La sua nuova propensione è nel campo delle Pari Opportunità. ha anche iniziato un’attività di tutoraggio, mentore e couching per neo imprenditrici e dirigenti donne, caratterizzando anche la rivista che cura nella valorizzazione del lavoro di vertice al femminile nella diversità di genere e creando una vera rete di donne impegnate.

1 commento

  1. Quanto alla libertà completa – scriverà – se ne può trovare un modello astratto in un problema di aritmetica o di geometria bene risolto; perché in un problema tutti gli elementi della soluzione sono dati e l’uomo può attendersi aiuto solo dal suo giudizio. … Non è possibile concepire nulla di più grande per l’uomo di una sorte che lo metta direttamente alle prese con la necessità nuda, senza che egli possa attendersi nulla se non da se stesso, e tale che la sua vita sia una perpetua creazione di se stesso da parte di se stesso.
    La “schiavitù” di un ritmo vitale atrofizzato, scandito dal funzionamento cieco delle macchine, dalla casualità arbitraria degli “ordini” di lavoro e dalla circolarità inesorabile di un tempo morto circoscritto nei confini rigidi della giornata lavorativa (“In questo spazio si gira in tondo.. si lavora solo perché si ha bisogno di mangiare. Ma si mangia per poter continuare a lavorare. E di nuovo si lavora per mangiare”, costringono quasi immediatamente alla più grave delle rinunce e determinano una sconfitta individuale inconfessabile. La prima vittima del lavoro operaio è la possibilità stessa del pensiero; il suo risultato più clamoroso un abbrutimento quasi senza parole, la “tentazione” micidiale di un’abulia involontaria, di una paralizzante forma di “semisonnolenza”. La fatica, il dolore e la sofferenza fisica sono solo gli aspetti esteriori di una resa interiore molto più profonda:
    Per me, personalmente, ecco cosa ha voluto dire lavorare in fabbrica: ha voluto dire che tutte le ragioni esterne (una volta avevo creduto trattarsi di ragioni interiori) sulle quali si fondavano, per me, la coscienza della mia dignità e il rispetto di me stessa sono state radicalmente spezzate in due o tre settimane sotto i colpi di una costruzione brutale e quotidiana. … Non sono fiera di confessarlo. … Mettendosi dinanzi alla macchina, bisogna uccidere la propria anima per 8 ore al giorno, i propri pensieri, i sentimenti, tutto … Questa situazione fa sì che il pensiero si accartocci, si ritragga, come la carne si contrae davanti a un bisturi. Non si può essere coscienti.
    Si è un oggetto in preda alla volontà altrui. Siccome non è naturale per un uomo diventare una cosa e siccome non c’è costrizione tangibile, non c’è frusta, non ci sono catene, bisogna piegarsi da soli a questa passività. Come sarebbe bello lasciare l’anima dove si mette il cartellino di presenza e riprenderla all’uscita. Ma non si può. L’anima la si porta con sé in officina. Bisogna farla tacere per tutta la giornata. Simone Weil

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