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    Home»"D" come Donna»Alda Merini I: La Penelope sul Naviglio
    "D" come Donna

    Alda Merini I: La Penelope sul Naviglio

    DolsBy Dols17/04/2012Updated:25/11/2014Nessun commento6 Mins Read
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    Nel cuore antico di Milano, appena su per la Darsena, in Viale Gorizia, c’è l’edicoletta del Radetzky, proprio quella in cui negli anni della dominazione austriaca venivano esposti gli editti firmati dal generale. Piccola e abbandonata all’incuria, è assisa a custode dei Navigli: l’Alzaia Naviglio Grande e quello Pavese.

    di Marianna Faraci

    E’ arrivata la Primavera…e con lei il ricordo di Alda Merini e la celebrazione della Giornata Mondiale della Poesia. Quale migliore occasione per rispolverare la tesi di laurea. Sì, rispolverare. Perchè il tempo, intanto, è trascorso: quasi nove anni da quella fine di maggio. Ma quell’intervista che chiudeva la ricerca sulla poetica della Merini (la prima, in Italia, che partiva dai suoi esordi sino alla produzione letteraria di quei giorni) è di un’attualità disarmante.
    Sembra che Alda sia lì, sulla Ripa, e che passando la si senta ancora cantare e ridere, ridere di cuore, come solo lei sapeva fare.
    Dunque, Dol’s era il megafono più giusto per amplificare il racconto di un’indimenticata Poetessa”.

    L’intervista fatta da Marianna è molto bella, ma toppo lunga per i tempi e gli spazi di Internet e si è quindi preferito riportarla integralmente, ma a puntate. Questa è la prima.

    LA PENELOPE SUL NAVIGLIO: INTERVISTA AD ALDA MERINI

    Nel cuore antico di Milano, appena su per la Darsena, in Viale Gorizia, c’è l’edicoletta del Radetzky, proprio quella in cui negli anni della dominazione austriaca venivano esposti gli editti firmati dal generale. Piccola e abbandonata all’incuria, è assisa a custode dei Navigli: l’Alzaia Naviglio Grande e quello Pavese.

    Qui il tempo sembra essersi fermato: le case sono basse, con le facciate variopinte e i balconi traboccanti di vasi di gerani e di violette; i vicoli nascosti da vecchi muri ricoperti d’edera si aprono in scorci suggestivi di ballatoi e di fili di panni stesi ad asciugare. Imboccando il Naviglio Grande si arriva persino al ‘Brelin’, l’antico lavatoio in pietra nel Vicolo privato Lavandai, e le insegne liberty e un po’ naïf dei negozi evocano un’atmosfera da romanzo verghiano: “Premiata pizzeria, con servizio di cucina”, “Luogo di conversazione. Osteria”.

    Sulla riva opposta, in Ripa di Porta Ticinese, abita Alda Merini.
    Incontrarla significa superare i cancelli reali che la separano dal resto del mondo e quelli immaginari della propria superficialità e dell’ovvietà per entrare in una dimensione inconsueta: quella della poesia. In un vecchio palazzo da poco restaurato, dalla facciata gialla e linda e dal cancello di un bel verde Milano, al secondo piano, sul pianerottolo di destra, si scopre subito una porta scura, per nulla simile alle altre: una piccola targhetta bianca con sopra dipinta una nuvola azzurra annuncia ‘Alda Merini’, poi un curioso bassorilievo di un gatto arancione dagli artigli spiegati avverte ‘Attenti al gatto!’ e infine, un po’ più giù, una targa rettangolare reca una dedica a Vanni Scheiwiller.

    Alda Merini vive da sola in una casa che è lo specchio dei suoi settant’anni: ricordi, amori e incontri. Ci sono le sue foto nelle pose più eccentriche, i mozziconi di sigarette, i numeri di telefono degli amici scritti sul muro, i premi e i riconoscimenti, lo smalto rosso per le unghie accanto ai libri e alle riviste sulla macchina da scrivere, le immagini della città negli anni ’30. E ormai, tra la gigantografia di Audrey Hepburn in ‘Vacanze romane’ e quella di Einstein mentre fa le boccacce, fatica a trovare un angolo anche il vecchio pianoforte su cui ha iniziato a studiare musica da ragazzina.

    La poetessa mi riceve in un afoso pomeriggio di fine maggio. È compiaciuta che la si cerchi e allo stesso tempo disturbata dai numerosi avventori che, mi confida, le chiedono di riaprire un’intima ferita in realtà mai ricucita: i suoi amori, l’esperienza manicomiale, il rapporto con le sue figlie, le misteriose figure che popolano quel palazzo. Inutile tentare di imprigionarla dentro schemi e clichés o costringerla a vestire gli abiti ufficiali dell’intellettuale. Alda Merini siede come una regina, priva di superbia, sul suo trono; prima attrice del palcoscenico reale in cui si mette in scena la storia dell’ultima bohémienne rimasta a vivere di poesia.

    Prima di iniziare l’intervista, con un accenno di civetteria, si acconcia i capelli, mette il rossetto e indossa un eclettico bracciale bianco, a scaglie, e due grossi anelli di strass. Mi ringrazia con estrema gentilezza e con verve ironica per il ‘pupo siciliano’ che le ho portato: «Ah, bene! L’Orlando ‘furioso’ fa proprio al caso della Merini! Sa che da bambina ho sempre desiderato un burattino?». E i suoi occhi verdi si accendono di fanciullesca curiosità, mi rivolge mille domande sull’Opera dei pupi, sulla sua importanza nella tradizione culturale siciliana. Le spiego il valore letterario delle pièces scritte in ottave epiche e interpretate dai ‘pupari’, del merito di questi ultimi di aver tramandato gli antichi miti dei paladini di Francia. Ne rimane affascinata: «Voi siciliani siete strabilianti, riuscite ad infondere un’anima anche ad un pezzo di legno!».

    Mentre chiacchieriamo amabilmente ella sfugge, fruga nei pensieri, incanta, racconta tutto e il contrario di tutto. Fuma le sigarette a rilento, staccandone il filtro, e una densa nuvola grigia ci avvolge in un’aura surreale. Quando le faccio notare che è considerata una delle voci più importanti della poesia contemporanea ribatte candidamente, lasciandomi di stucco: «Chi si proclama sapiente non esprime che una foglia di questo grande albero centrale che è il Sapere della vita».

    Donna formidabile, oltre che grande poetessa. Mi racconta di sé senza falsi pudori, senza censure calcolate, ma sempre con gentile misura. Chiede approvazioni e conferme e poi, a sua volta, mi scruta per saperne in più di me, della mia vita, dei miei affetti, dei miei sogni.

    L’osmosi è naturale e arricchente, più di quanto le parole possano Solo alla fine, nella sua voce bassa e flessuosa scorgo una patina di malinconica rassegnazione: «Ogni giorno è per me una conquista. Le ecchimosi esterne sono ben poca cosa rispetto alle lacerazioni del cuore. È per questo che disdegno ogni medicina artificiosa. Preferisco vivere alla giornata, confidando nella mia povertà di donna e nelle estasi supreme dell’amore».

    Una Penelope stanca, la cui tela regale e laboriosa è al termine. Ma che aspetta con ansia che dal Naviglio ritorni il suo Ulisse. Anzi è lei stessa Penelope e Ulisse: donna dell’attesa e madre sensibile, ma anche eroe audace, avido di conoscenza e pronto a sfidare la sorte. In Alda Merini ogni antinomia resta irrisolta.

    Il dialogo che segue è la trascrizione di tre intensi colloqui con la poetessa, riuniti in un’unica, ininterrotta conversazione e privi di alcuni brani, da me volutamente omessi in segno di rispetto e stima per la profonda onestà intellettuale dell’autrice. Sicura che questi nulla sottraggano all’incisività dell’intervista, non posso che affidarli alla mia memoria come eco di un prezioso privilegio.

    <continua>

    Alda Merini naviglio penelope
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