di Rita Cugola
La caduta del regime talebano in Afghanistan non ha minimamente contribuito a migliorare la condizione femminile nel paese. Soltanto nel primo semestre del 2011, infatti, gli abusi segnalati sulle donne ammontavano già a 1026. E’ pur vero che dal 2009 esiste una normativa specifica in materia (si tratta della legge Evaw, “Elininazione della violenza contro le donne“), ma è altrettanto innegabile che il governo afghano, nonostante gli sforzi, non sia ancora riuscito a farla applicare, come ha recentemente ricordato nel corso di una conferenza stampa lo stesso commissario per i Diritti Umani dell’Onu, Navi Pillay.
Le zone rurali interne – dove il tasso di ignoranza e di analfabetizzazione è ancora molto alto – sono quelle dove più si verificano episodi di misoginia e intolleranza.
Particolarmente emblematica e toccante è l’eco della vicenda che giunge dal villaggio di Mahfalay, situato nel remoto distretto di Khanabad, nella provincia settentrionale di Kunduz.
Protagonisti, una coppia di coniugi trentenni, Sher Mohamed e sua moglie Storay, già genitori di due bimbe. Una famiglia come tante, in quella terra che sembra appartenere a un’altra epoca storica: un marito-padrone, una donna accondiscendente.
La tragedia scoppia quando la donna scopre di essere rimasta incinta per la terza volta: “Mai più un’altra donna in questa casa!”, è il duro monito dell’uomo, appena ricevuta la notizia. I mesi passano, e per Storay arriva il momento del parto: nasce un’altra femmina.
A questo punto è impossibile per Sher Mohammed tollerare l’ennesimo affronto da parte di quella moglie incapace di dargli il tanto sospirato figlio maschio. Così decide di risolvere personalmente, una volta per tutte, la spinosa questione che gli sta a cuore. Storay deve essere punita severamente per la colpa commessa. E la sua punizione è la morte.
L’uomo non ha dubbi: affronta la moglie e la strangola con la complicità dell’anziana madre, Wali Hazrata, arrestata subito dopo il misfatto.
Sfuggito alla cattura, Sher Mohamed si è invece dato alla fuga rifugiandosi – secondo il capo della polizia distrettuale, Sufi Habibullah, – presso un boss locale al comando di un manipolo di miliziani armati. “E finchè sarà protetto da questo indivduo”, ha detto, non potremo arrestarlo”.
L’omicidio di Storay ha scosso l’opinione pubblica d’élite. Per Nadera Gayah, responsabile del Dipartimento per le Questioni femminili, si è trattato del “peggior esempio di violenza contro le donne mai verificatosi nel paese”.
Il triste episodio è stato condannato anche dal teologo Maulvi Khosh Mohammad, che lo ha definito “la più infima forma di crimine”, specificando che l’accaduto “va contro i diritti delle donne garantiti dall’Islam“.
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