Con ogni paziente viaggio dentro di me.
Non esiste seduta in cui, ascoltando l’altro, non tocchi anche qualcosa di mio. Ogni storia apre un varco, un richiamo silenzioso a parti di noi che pensavamo lontane, ma che restano vive sotto la pelle.
Oggi, per esempio, ho incontrato una paziente proveniente da una famiglia “perbene”, una di quelle dove le regole contano più delle emozioni, dove il rispetto delle apparenze pesa più della libertà interiore. Una famiglia in cui la reputazione è tutto, e la fragilità va nascosta.
La mia paziente è cresciuta imparando a giudicare chi stava “fuori norma”: gli ultimi, gli irregolari, chi vive ai margini. Figli di famiglie difficili, di spacciatori, di chi non rientra nei canoni della “brava gente”.
Durante la seduta mi ha chiesto, con una sincerità disarmante:
“La psicologia dice che scegliamo persone simili ai nostri genitori. Ma allora come si spiega che io mi innamoro sempre di uomini completamente diversi dalla mia famiglia?”
La sua domanda mi ha toccata nel profondo.
Secondo la psicoanalisi classica, Freud diceva che amiamo ciò che conosciamo: i nostri legami affettivi si costruiscono sul modello delle prime relazioni, quelle con i genitori o con i caregiver. È il cosiddetto prototipo infantile, che inconsciamente tendiamo a ripetere nella vita adulta.
Eppure, come ricordava Jung, ciò che sembra opposto non lo è davvero: è spesso la parte di noi che abbiamo rimosso, quella che chiede di essere vista. Innamorarsi del “contrario” diventa allora un modo di riequilibrare, di integrare dentro di noi qualcosa che era stato escluso, negato, magari per paura o per vergogna.
Ogni amore è una forma di compenso psichico: non cerchiamo solo chi ci rassicura, ma anche chi ci sfida, chi ci costringe a vedere la nostra ombra.
Come direbbe Jung, ci innamoriamo delle nostre ombre travestite da luce.
Mentre rispondevo alla paziente, ho sentito emergere un ricordo.
Io sono curda, e da bambina, negli anni ’90, vivevo in un clima di paura. Mio padre, spaventato che qualcuno potesse accusarci di essere “terroristi”, ci vietava di usare i colori rosso, giallo e verde; i colori del Kurdistan.
Ma io, di nascosto, li cercavo ovunque. Li disegnavo, li indossavo, li intrecciavo nei fili dei braccialetti. Era il mio modo ingenuo ma istintivo di dire “io esisto”.
Quel gesto, oggi lo capisco, era una forma di resistenza simbolica. Un modo per dare voce a ciò che non poteva essere detto.
Col tempo sono diventata attivista, una delle poche nella mia famiglia a esporsi pubblicamente per i diritti del mio popolo. Ho gridato giustizia per i curdi, tanto da riuscire a cambiare, un giorno, anche lo sguardo di mio padre.
Ripensando a quel periodo, mi accorgo che anche in me abitava lo stesso movimento della mia paziente: un bisogno di ribaltare ciò che avevo ereditato, di amare il contrario di ciò che mi era stato imposto.
Forse perché, a volte, è proprio scegliendo l’opposto che possiamo guarire la ferita.
Ogni volta che ci innamoriamo di qualcuno “diverso”, incontriamo una parte di noi che vuole essere riconosciuta.
Ogni volta che una paziente mi chiede “perché amo chi non somiglia alla mia famiglia”, sento che la risposta non sta nella logica, ma nel cuore profondo della psiche: nel bisogno umano di trasformare la paura in libertà, e il dolore in significato.
L’amore, come la terapia, non è mai una fuga. È un ritorno.
Un ritorno a noi stessi, attraverso l’altro.
