Quel giorno in cui ho cantato “Abone” davanti ai curdi: identità, musica e la forza di stare tra due mondi
di Nurgül Çokesici
C’è un momento, una scena quasi comica e struggente insieme, che continua a tornarmi in mente: ho cinque, forse sei anni. Sono su un piccolo palco improvvisato, davanti a un gruppo di curdi la mia comunità. E cosa canto? “Abone”, un classico del pop turco, leggero, spensierato, scritto da Aysel Gürel, cantato da Yonca Evcimik. Una bambina curda, che canta una hit di Istanbul davanti a persone che, negli stessi anni, venivano discriminate proprio da quel mondo a cui quella musica appartiene.

Oggi, mentre guardavo un documentario, la mia mente ha fatto un salto strano. Tra immagini di ferro, ingegneria e modernità, è riapparso quel ricordo. E con lui, la voce di Aysel Gürel, una donna geniale, colta, libera, che ha scritto le parole di tante canzoni diventate icone della Turchia degli anni ’80 e ’90. Una Turchia bianca, laica, urbana. Lontana dal mio villaggio, dai miei dialetti, dalla mia infanzia fatta di parole curde sussurrate e nascoste. Eppure, quella musica l’ho amata. L’ho ascoltata, l’ho cantata. Mi ha attraversata. Mi ha persino formata.
Quando l’identità si balla tra due ritmi
Sono cresciuta in una famiglia curda, in un Paese che ci ha negato il nome, la lingua, la cultura. Negli anni ’90, essere curdi in Turchia significava essere invisibili, o peggio, indesiderati. Ma la radio passava Ajda Pekkan, Nilüfer, Tarkan, Sezen Aksu. Quelle melodie entravano dalle finestre aperte d’estate, nei negozi, nei pullman, nelle case dei vicini. E senza accorgermene, mi sono ritrovata a conoscerle tutte.
Il paradosso è che subito dopo quella performance di “Abone”, cantavo anche Bingöl Şewtê, Megerî Megerî. Due mondi, due lingue, due ritmi. Due appartenenze.
Mi sono chiesta spesso perché. Perché quella musica che veniva da un mondo che ci ha oppressi, mi ha comunque parlato? Forse era un modo per sopravvivere, per adattarmi, per muovermi tra universi diversi. Forse era solo bellezza, e la bellezza non ha patria. Ma non è stato facile.
Rabbia e fascino: il sentimento contraddittorio verso la Turchia urbana

C’è in me, ancora oggi, una rabbia silenziosa verso quella borghesia turca che guardava i curdi dall’alto in basso. Non i miei studenti di oggi, ma quella classe sociale che per anni ha contribuito alla cancellazione della nostra identità. Eppure io, da ragazzina, ero a mio agio anche in mezzo a loro. Pranzavo, ridevo, partecipavo.
Ho sviluppato una strana capacità: stare bene in ambienti molto diversi. Capire più codici culturali. Tradurre mondi. E questa è diventata la mia forza. È ciò che mi ha portato a fare quello che oggi è chiamata mediazione culturale. Non è solo un mestiere, è una forma di resistenza sottile. È la mia identità multipla che prende forma.
Non c’è solo un mondo dove abitare
Mentre ascolto di nuovo Aysel Gürel, con i suoi giochi di parole, la sua intelligenza tagliente, la sua energia libera, mi accorgo che mi appartiene anche lei. Anche se ho combattuto per non riconoscerlo. Anche se ho cercato di dimenticare.
Forse crescere è proprio questo: smettere di dividere tutto in bianco e nero. Capire che si può amare qualcosa che ci ha fatto male. Che si può appartenere a più mondi senza tradire nessuno. E che, in fondo, la musica è il ponte più sincero tra identità e desiderio.
Oggi so che quella bambina che cantava “Abone” davanti ai curdi non stava tradendo nessuno. Stava solo imparando a stare nel mondo, con tutte le sue contraddizioni. E stava preparando il terreno per diventare, un giorno, la donna che sono ora: libera, complessa, e finalmente intera.