di Nurgül ÇOKGEZİCİ
LA PSICOLOGIA DELL’OPPRESSO CHE CONTINUA A PARLARE AL PRESENTE e
Dal letto di un ospedale, in un tempo sospeso dove il corpo sembra reclamare attenzione e i pensieri diventano più nitidi, ho ripreso in mano le pagine di Frantz Fanon. Non era la prima volta che lo leggevo, ma ogni incontro con lui è un ritorno trasformativo. Le sue parole, scritte in un contesto di lotta anticoloniale che potrebbe sembrare lontano, mi hanno trafitto con la forza di un presente che non smette di interrogarmi. Fanon, filosofo e psichiatra martinicano, morto prematuramente a soli 36 anni, resta per me un faro che illumina le contraddizioni della condizione dell’oppresso.
Leggerlo oggi significa non solo ricordare la sua battaglia contro il colonialismo francese in Algeria, ma soprattutto riscoprire la potenza della sua analisi psicologica, che continua a descrivere con precisione le ferite interiori che viviamo come popoli negati.
Ogni pagina mi riconduce inevitabilmente al popolo a cui appartengo: i curdi. Popolo frammentato, diviso tra quattro Stati, ridotto al silenzio da politiche di negazione sistematica, spinto ai margini della storia ufficiale e talvolta persino della memoria collettiva. Quando Fanon scrive che il colonizzato “è un individuo in cui si insinua l’inferiorità come seconda natura” (Fanon, 1952), io vi ritrovo la mia infanzia, la mia esperienza di bambina curda cresciuta in Turchia, costretta ad apprendere che la mia lingua non aveva diritto di cittadinanza, che la mia cultura era priva di valore e che la mia identità non era altro che un ingombro da rimuovere.
Fin da piccola mi è stato insegnato – con parole esplicite o con silenzi carichi di significato – che eravamo “meno di qualcosa”. Questa svalutazione costante ha inciso su di me come una cicatrice indelebile. Fanon mi ha aiutata a nominare ciò che da bambina percepivo senza poterlo spiegare: il meccanismo attraverso cui il potere coloniale (o statale, nel nostro caso) consolida il proprio dominio, disarticolando non solo le strutture politiche ma soprattutto la dignità psicologica del colonizzato. Non si tratta di un passato chiuso: oggi, in Turchia, in Iran, in Siria e in parte in Iraq, le politiche di cancellazione persistono. Scuole che vietano la lingua curda, media che ridicolizzano le nostre tradizioni, leggi che relegano la nostra identità a un’invisibilità strutturale.
Ma la parte più devastante, e qui la lezione di Fanon è fondamentale non è la violenza esterna, quella visibile, fatta di repressioni, arresti, bombardamenti o censure. È piuttosto la violenza che si insinua dentro, quella che si interiorizza. Fanon lo descrive con lucidità: il colonizzato finisce per assumere come propria l’immagine negativa che il colonizzatore gli restituisce. Non solo subisce l’oppressione, ma arriva a desiderare di disfarsi di sé, a vergognarsi della propria stessa identità. Io stessa ho vissuto questa tensione, talvolta senza esserne del tutto consapevole.
In Turchia, parlare turco senza accento era sinonimo di civiltà, di intelligenza, di rispetto sociale. Nella diaspora, padroneggiare perfettamente l’italiano è diventata per me la condizione indispensabile per essere accettata. Ho collezionato tre lauree, continuo a studiare, ora con il sogno e l’impegno di diventare criminologa di guerra. Dietro questa spinta c’è il desiderio di elaborare il trauma collettivo e individuale, ma anche la volontà di conquistare uno spazio che, da sempre, mi viene negato.
Eppure, nonostante i miei sforzi, so che non entrerò mai pienamente nella società dominante: né in quella turca, che ha tentato di cancellarmi culturalmente, né in quella italiana, che mi riconosce ma sempre entro un margine di estraneità, né in quella occidentale più ampia, che continua a guardare i popoli come il mio attraverso una lente orientalista. È qui che ritrovo la forza delle parole di Fanon: il riconoscere questa frattura non come fallimento individuale, ma come conseguenza di un sistema. È per questo che scelgo di aggrapparmi alla mia identità curda, anche quando i miei stessi genitori hanno tentato di nasconderla per sopravvivere.
Uno degli insegnamenti più rivoluzionari di Fanon riguarda la violenza del linguaggio. Il colonialismo non è solo fatto di armi e confini, ma soprattutto di discorsi. Le parole diventano strumenti di oppressione, capaci di ridurre intere popolazioni a stereotipi degradanti. E io questa dinamica la vedo ripetersi ogni giorno. In Italia, nelle dichiarazioni di Matteo Salvini e di altri leader della destra radicale; in Turchia, nei discorsi di Ümit Özdağ; in Francia, nelle parole di Marine Le Pen.
Ognuno di loro, nel proprio contesto, perpetua una violenza simbolica che non è meno reale di quella fisica. Io li considero violentatori psicologici, perché la violenza non è solo un pugno o un proiettile: è anche una parola che ti schiaccia, che ti riduce, che ti fa sentire fuori posto. È una ferita invisibile che però continua a sanguinare. Per questo sono convinta che la lotta non debba limitarsi al campo politico o culturale, ma arrivare fino ai tribunali. La violenza verbale è violenza reale, e come tale deve essere riconosciuta e punita.
Eppure, Fanon non si arresta davanti alla diagnosi della ferita. Egli ci consegna anche un cammino di guarigione, una possibilità di catarsi. La resistenza, per lui, non è solo un atto politico, ma un processo di liberazione interiore, un modo per riappropriarsi della propria umanità. In questo riconosco la mia esperienza personale: lo studio, per me, è resistenza. Ogni libro che apro, ogni ricerca che porto avanti, ogni percorso accademico che intraprendo non sono soltanto conquiste individuali, ma atti di resistenza collettiva. Studio per me, ma soprattutto per le mie figlie. Perché possano crescere non con il peso dell’alienazione, ma con la capacità di trasformare l’oppressione in forza creativa.
Da psichiatra, Fanon aveva compreso una verità che per me resta fondamentale: la terapia dell’oppresso non può ridursi a un intervento clinico. La psicologia, se resta slegata dalle strutture di potere che generano il trauma, rischia di essere incompleta, se non complice. La vera terapia è politica. Per me, guarire significa demolire i sistemi di dominio, decostruire le gerarchie tra i popoli, denunciare il razzismo, aprire spazi di parola e di riconoscimento. Solo in questa lotta ritrovo la mia interezza, la mia dignità, la mia libertà.
E così, ancora oggi, dal mio letto d’ospedale, tra le pagine di Fanon ritrovo la certezza che la psicologia dell’oppresso non appartiene al passato. Continua a parlarci, a parlarmi, con una forza che nessuna censura potrà mai spegnere. La sua voce e la mia, intrecciate, raccontano una stessa verità: che la liberazione non è soltanto necessità politica, ma condizione imprescindibile per la guarigione dell’anima.