di Wes Anderson
con Benicio Del Toro, Mia Threapleton, Michael Cera, Tom Hanks, Bryan Cranston, Riz Ahmed, Jeffrey Wright, Scarlett Johansson, Richard Ayoade, Rupert Friend, Hope Davis, Benedict Cumberbatch.
nelle sale dal 28 maggio
Uno stile unico e subito riconoscibile. Non serve un’intera sequenza, basta una foto di scena per capire che siamo di fronte a un film di Wes Anderson, artista inconfondibile fin dai tempi del suo capolavoro I Tenenbaum (2001).
Fanatico della simmetria, amante dei colori pastello, veste i suoi protagonisti con abiti che mescolano l’eccentricità vintage con il bon ton e caratterizza ciascuno di loro con oggetti speciali, realizzati su misura o scovati con la determinazione maniacale del collezionista.

Il regista, nato a Houston, in Texas, ma più newyorkese di chi è nato in un appartameto con vista su Central Park, ha in passato qualche volta trascurato la trama per inseguire il suo snobismo e le sue ossessioni. Nell’ultimo film, che ha avuto anche l’onore del concorso al Festival di Cannes, sfugge alla tentazione e anzi si concentra sulla trama, cercando molti riferimenti alla storia e al cinema. Ovviamente non accantona il suo estremismo estetico che o condividi o detesti. Tertium non datur, perché Wes Anderson non incontra il gusto di chi preferisce le mediazioni e tantomeno i compromessi. Sa cosa vuole ed è disposto a dannarsi per raggiungerlo.

A me personalmente il suo stile piace e spesso vorrei che le inquadrature durassero di più per avere il tempo di osservare la perfezione della scena come se stessi visitando una wunderkammer. Le sequenze dei suoi film sono vere e proprie stanze delle meraviglie che esibiscono gli oggetti più inaspettati e eccentrici e ti ritrovi a pensare a quanto lavoro di trovarobato e di scenografie sia stato necessario. Mi piace la precisione di Wes Anderson, la sua fantasia ludica, l’accumulo di oggetti preziosi e inutili, la costruzione dei personaggi dove niente è superfluo.

Costringere ad esempio, come in questo ultimo film, Benicio Del Toro, protagonista assoluto e dannatamente in parte, a fumare giganteschi sigari cubani e ad essere sempre malconcio, con qualche ferita e qualche cerotto, contribuisce a modellare il personaggio del grande magnate. Così come far recitare Mia Threapleton (figlia di Kate Winslet) nel ruolo della figlia Liesl, suora novizia costretta a improvvisarsi erede del padre, con una pipa tempestata di pietre e un rosario fra le dita significa sottolineare vezzi che danno rotondità e senso ai personaggi.
Ma veniamo alla storia. Siamo nel 1950, Anatole Zsa Zsa Korda (Benicio Del Toro) è un eccentrico ricchissimo e spregiudicato uomo d’affari europeo, un tycoon degli anni d’oro del capitalismo che ha qualche eco sia reale che cinematografico. Un po’ assomiglia a Fouad Malouf ( a cui è dedicato il film), uomo d’affari libanese e padre di Juman, moglie del regista. Pare che Wes Anderson abbia a lungo parlato col suocero e gli abbia chiesto informazioni sugli uomini della sua squadra.

E la risposta è stata illuminante per il film: “Sono tutti leoni”. E leoni infatti sono i personaggi che Korda incontra, suoi simili a cui chiede un aiuto per sanare un complicato buco di liquidità che rischia di mettere a rischio un suo faraonico progetto, appunto quella Trama fenicia del titolo. Il miliardario rimanda anche ad altro, prima di tutto a Citizen Kane, protagonista di Quarto potere ma anche al patriarca di L’Orgoglio degli Amberson. Uomini d’affari, ma anche protagonisti della storia come lo sono stati Onassis, Gianni Agnelli, Rockfeller, Hearst o Calouste Gulbenkian. Si pensa più di una volta a Orson Welles. Ma anche a Luis Buñuel, per l’ironia surreale e spiazzante che irrompe nella vicenda. Ad esempio quando all’improvviso fa la sua comparsa un gruppo di guerriglieri alla Che Guevara i cui modi non avrebbero sfigurato in Il fascino discreto della borghesia.
Tanta cultura e altrettanta cura, tutto al servizio di un film molto sentito e molto amato. Tanto per dire, alcune delle opera d’arte che si vedono sul set sono vere e sono state chieste in prestito a vari collezionisti. Forse per Benicio Del Toro trovarsi sopra il letto un vero Renoir ha inciso sulla recitazione e sullo stato d’animo. Anzi, non c’è dubbio che sia stato determinante. Giusto per soddisfare una legittima curiosità, ecco dove sono state scovate le opere d’arte: il Renoir viene dalla Collezione Nahmad, il Magritte dalla Collezione Pietzsch. Altri pezzi provengono dalla Hamburger Kunsthalle. Molta arte surrealista, fotografia, espressionismo astratto e persino una scultura lignea del XIV secolo. Insomma, un set trasformato in museo.

Accanto ai due protagonisti, appaiono in quei camei che tanto piacciono a Wes Anderson molti altri attori affezionati al regista, da Tom Hanks a Scarlet Johansson e Jeffrey Wright, alla new entry Benedict Cumberbatch (magnifico), nei panni di zio Nubar che, e siamo sempre nei territori della cinefilia, perché ha la stessa barba luciferina che portava Orson Welles in Rapporto confidenziale. Immancabile Bill Murray, complice da sempre, che qui interpreta addirittura Dio nei sogni (in rigoroso bianco e nero) che perseguitano il protagonista e che ricordano sia Woody Allen che certi registi nordici.
Insomma, per chi ama il cinema e ama Wes Anderson, questo è un film da vedere e rivedere, come una mostra barocca e ricchissima, perché i particolari a cui appassionarsi sono infiniti.

Si respira aria di cinema colto, di film che avevano protagonisti come Orson Welles, Jean Gabin o Anthony Quinn. E Benicio del Toro regge alla grande il confronto con i mostri sacri.
Certo, mi rendo conto che se manca questo tipo di ossessione culturale e cinefila, La trama fenicia verrà apprezzata molto meno, magari ritenendo che il film sia troppo snob e appesantito da citazioni e pure autocitazioni. Io penso che invece in Wes Anderson lo stile sia al servizio della sostanza. Ovvero del contenuto. Per me resta un gioiello, un caleidoscopio, un mosaico visivo che diventa ma ancora più cangiante per chi abbia voglia di percorrerne i rigagnoli più nascosti.