Lo stalking è un reato ed un grave abuso contro la donna che lo subisce, la quale rischia oltretutto, concretamente, di essere fatta oggetto di forme di violenza più gravi sino all’atto tragico del femminicidio, come mostrano le terribili recenti vicende di Sara Campanella e Chiara Spatola, soppresse cruentemente dai loro persecutori, nel caso di Chiara coinvolgendo anche il suo fidanzato cui è stata tolta egualmente la vita.
Lo stalking, termine che deriva dall’inglese to stalk, tampinare, descrive comportamenti reiterati di irruzione e molestia nella vita di una persona che determinano in lei ansia e paura tali da causarne il cambiamento dello stile di vita e la compromissione del benessere psicologico.
Può considerarsi stalking: le comunicazioni ripetute e moleste con la vittima, come inviarle o farle trovare nei luoghi della sua quotidianità messaggi o tracce del proprio passaggio, effettuare pedinamenti, assumere informazioni su come organizza il proprio tempo, minacciarla più o meno velatamente assieme ai suoi cari, ma anche danneggiarne le proprietà, diffamarla e aggredirla verbalmente.
Tali atti persecutori sono annoverati tra i reati sentinella della violenza di genere che risultano tra l’altro in aumento, come evidenziato nel report relativo all’anno 2024 “8 marzo Giornata internazionale della donna”, redatto quest’anno dal Servizio analisi criminale della Direzione centrale Polizia criminale.
Ma allora perché le ragazze dei due casi citati e più in generale le donne che subiscono stalking tendono a non denunciare la situazione alle autorità competenti?
Le più giovani hanno tipicamente difficoltà a decrittare certi comportamenti, specie se di “molestia generica”, come anticipatori di qualcosa di più grave e possono nutrire l’illusoria sicurezza di poterli gestire persuadendo chi li attua ad interromperli.
Le ricerche indicano che spesso la vittima di stalking è talmente spaventata da paralizzarsi temendo ulteriori conseguenze negative dopo la denuncia.
Ciò è particolarmente vero per quelle donne che escono da un legame abusante e quindi, quando inizia la persecuzione, sono già fiaccate dai maltrattamenti psicologici e non solo che hanno subito durante la relazione. Questo causa un deficit della capacità di lettura della situazione di pericolo che stanno vivendo e di autodeterminazione nel porre in atto quei comportamenti di protezione, di cui il più importante è sporgere denuncia.
Non infrequentemente poi, quando a stalkerizzare è un ex partner, magari padre dei figli, la donna finisce per soprassedere rinunciando ad autotutelarsi o addirittura ritirando la denuncia a seguito di repentini quanto classici ed improbabili pentimenti accompagnati da enfatiche richieste di perdono del persecutore.
In altri casi entra in giocoun senso di vergogna che deriva dal fenomeno del victim blaming riservato alla donna nella nostra società, per cui le viene attribuita la responsabilità di ciò che subisce.
Circa questi due ultimi aspetti, paradigmatica è la vicenda della modella Sophie Codegoni di 23 anni, che ha denunciato per stalking il suo ex compagno cui la Cassazione ha recentemente imposto il divieto di avvicinamento e l’uso del braccialetto elettronico.
A seguito del suo recente intervento alla trasmissione televisiva “Le Iene”, in cui Sophie ha raccontato quella discesa all’inferno che comporta l’esperienza di una relazione tossica e l’incubo della persecuzione che comincia quando chi l’ha vissuta in posizione di sudditanza si sottrae al controllo del partner dominante, si sono letti svariati commenti social stigmatizzanti le sue dichiarazioni, di donne, per giunta.
Questo è il risultato della misoginia interiorizzata dalle donne stesse cresciute a pane e stereotipi di genere, manipolate a tal punto da essere le prime sostenitrici dell’asservimento in cui vivono generato da un pensiero retrivo di origine patriarcale che purtroppo è stato trasmesso, ricerche alla mano, anche ai più giovani.
Per questo certo femminile non solo non conosce sorellanza, ma detesta chi si sottrae alla violenza di genere, normalizzando quella che è anche una odiosa forma di discriminazione che impedisce alla donna di godere dei propri diritti su una base di parità con l’uomo.
Cosa si può fare per cambiare lo status quo e soprattutto per prevenire altre tragedie? Divulgare, informare, creare consapevolezza e rispondere ai tanti interrogativi, per non parlare di dilemmi, che ragazze e donne hanno quando cominciano a respirare certe atmosfere di arbitrio e/o a subire comportamenti abusanti financo persecutori.
Da tanti anni mi occupo di questo nei media, sui social, come curante e promotrice di eventi dedicati alla prevenzione e contrasto della disparità e della violenza di genere.
Questo sabato, dopo il significativo riscontro del precedente seminario che ho condotto a marzo alla biblioteca Lambrate, torno a Milano per un nuovo intervento e confrontarmi con voi su un tema così urgente e centrale quale è il nesso tra le relazioni tossiche e la violenza di genere.

Vi aspetto sabato 10 maggio alle ore 15 presso la biblioteca Calvairate per l’evento dal titolo “Pensavo fosse amore e invece era un Malessere”, a ingresso libero.
Desidero concludere il mio scritto con una indicazione accorata alle ragazze e alle donne che stanno subendo maltrattamenti o atti persecutori e non sanno come comportarsi: denunciate immediatamente ogni episodio di molestia, prima lo farete e con maggiore tempestività verranno poste in atto dalle autorità le misure di tutela che possono salvarvi la vita, fatevi sorreggere dalla rete familiare/amicale di cui disponete e chiedete l’intervento di una/o Psicoterapeuta esperta/o in queste dinamiche che sappia intervenire sul trauma, in modo da essere sostenute e da elaborare correttamente le conseguenze spesso impedenti degli abusi.
E a quelle che hanno paura di venire colpevolizzate ricordo il magnifico esempio di Gisèle Pelicot che si è esposta in Francia dopo le gravi violenze che le ha inflitto il marito. Riteneva infatti fosse il solo modo di agire affinché la vergogna cambi campo e venga restituita a chi certi atti li compie e non più addossata a chi li subisce.