Disforia di genere e identità sessuale

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di Maria Grazia Tundo

Il 7 marzo 2023 si è svolto un interessante incontro su “Disforia di genere e identità sessuale” presso il Liceo Salvemini, rivolto a docenti e genitori. Non è casuale che sia stato organizzato dal Centro GIPPSI, una realtà particolarmente importante a Bari, che si rivolge ai giovani fino ai 30 anni circa, con l’obiettivo di lavorare con loro e con le famiglie per la prevenzione delle psicosi, che spesso hanno esordi in età giovanile, anche molto precoce. A supporto di tale iniziativa ci sono anche le due associazioni di familiari “Cambioverso” e “Dario Favia. Lasciateci le ali”, molto attive nell’ambito della sensibilizzazione e diffusione di informazioni relative alla promozione del benessere giovanile a livello cittadino.

Tutte le relatrici (le dott.sse Angela Carofiglio, Elisabetta Lavorato, Iole Losole, Marina Mancina, Teriana Montaranelli, Antonella Laforgia e Alessandra Rutigliano) ci tengono a sottolineare che parlare di disforia di genere non implica che si tratti di una patologia, ma che spesso – anche a causa di difficoltà di accettazione socioambientali – un disagio di tale natura non riconosciuto e compreso può dare vita a sintomi dolorosi e invalidanti rispetto alla costruzione di un proprio progetto di vita. Il momento della consapevolezza, infatti, molto frequentemente necessita di un supporto psicologico, potendoci essere rischi depressivi o suicidari e difficoltà d’inserimento sociale (sia scolastico, sia lavorativo).

La dott.ssa Elisabetta Lavorato, responsabile del Centro Regionale per la Disforia di Genere e psichiatra, ce ne parla inquadrando la questione sia a livello storico sia mettendone in luce gli stereotipi, ma anche puntando l’attenzione sulle buone prassi. 

La prima questione controversa è legata all’uso del linguaggio, che rischia di etichettare e creare incomprensioni, e quindi ci illustra i concetti chiave legati all’identità di genere nonché le loro ambiguità. 

Anche la distinzione, data per scontata, tra sesso e genere è da mettere in dubbio dal momento che la rappresentazione di solo due possibilità fenomenologiche, cioè maschio/femmina, non ha in fondo nulla di davvero naturale, essendoci comunque da subito un’interpretazione sociale binaria del sesso biologico.

Il genere è inteso come la costruzione sociale che si crea intorno alle caratteristiche biologiche di un individuo, agganciate a stereotipi con valore normativo, a partire dalle rappresentazioni culturali che delineano, per esempio, il maschio come forte e deciso e la femmina come dolce e accogliente.

Nell’identità di genere convergono influenze biologiche e ormonali, l’assegnazione sessuale alla nascita e le influenze sociali e probabilmente molto altro ancora; è un concetto multidimensionale legato alla percezione soggettiva di sé, che si definisce al crocevia tra implicazioni culturali e desideri più o meno conformi alle aspettative esterne, quasi sempre di tipo binario, che spingono all’appartenenza ad uno dei due generi. Se si ci percepisce come concordanti con il proprio sesso biologico, ci si definisce cisgender, altrimenti si aprono una moltitudine di nuovi scenari.

L’espressione di genere è il modo in cui si esprime tale identità, tramite abbigliamento, giochi, sport, ecc. ed è diversa dall’orientamento sessuale, che invece implica l’attrazione affettiva e sessuale nei confronti di altri individui. Interessante ricordare, a tal proposito, che l’OMS, nel 1990 ha definito l’omosessualità una variante naturale del comportamento umano, depennandone la componente patologica e derubricandola dall’elenco delle malattie mentali. 

Transgender è il termine-ombrello, che ingloba tutti coloro che non si sentono racchiusi nello stereotipo di genere normativamente delineato come maschile o femminile, raggruppando una molteplicità di esperienze in una medesima categoria. Si riferisce, pertanto, a tutti coloro che non si riconoscono nel genere assegnato alla nascita: c’è chi si identifica in uno dei due generi e chi si autodefinisce in modo non dicotomico, secondo una visione non-binaria.

Dal lato “binario” troviamo le parole transman e transwoman; i termini “non-binary” sono invece gender queer, gender fluid, demiboy, demigirl, agender e “bigender”, ecc., lessico che implica un’identificazione meno rigida.

Il concetto “disforia di genere” è stato introdotto nel DSM 5 (Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali) per indicare una nuova classe diagnostica e riflette un cambiamento nella concettualizzazione della definizione: esso evidenzia il fenomeno dell’ ”incongruenza di genere”, che non rientra nei disturbi mentali. Si è dovuto inserirlo comunque nel DSM, anche se in una categoria a parte, per la necessità di aver accesso all’utilizzo dei servizi sanitari e alle risorse essenziali per la salute, ma soprattutto al percorso medico per l’affermazione di genere.

Ci si può domandare che senso abbia creare così tante definizioni, che possono facilmente trasformarsi in etichette, in quanto si rischia di bloccare gli individui in aspettative sociali, anziché valorizzarne l’unicità. La risposta è che, malgrado tale pericolo, sono utili a dare un nome, e dunque un’esistenza, a realtà diverse che potrebbero non avere altro modo per definirsi e che, invece, così possono riuscire a superare la sensazione di non “esserci”. Lo stigma sociale nei confronti di chi disturba la “norma” è infatti particolarmente potente, legato a discriminazioni e aggressioni, che amplificano il cosiddetto “minority-stress”, cioè uno specifico fattore di vulnerabilità psicosociale. Per aumentare la resilienza degli individui sono pertanto necessari contesti inclusivi, capaci di riconoscimento, che di per sé promuovono la salute e il benessere.

La scuola spesso non risulta un ambiente protettivo, in grado di veicolare il concetto che un adulto LGBT possa avere un futuro felice; malgrado ciò, in alcune realtà, ancora poco diffuse, si stanno sviluppando progettualità legate alla “carriera alias”, in cui avviene il mutamento del nome e dell’appartenenza al genere sui documenti scolastici anche senza attribuzione anagrafica, nell’ottica di favorire e rendere possibile il bisogno degli studenti e delle studentesse di essere autentici e riconosciuti. Significa superare, con una procedura significativa dal punto di vista simbolico, lo stigma che soffrono tutte le persone che si discostano da una presunta “normalità” attesa e che presentano spesso vissuti di emarginazione, evitamento, solitudine, rabbia, senso di abbandono, vergogna, colpevolizzazione.

La carriera alias, nel riconoscere l’identità elettiva delle persone nell’ambiente scolastico, nell’attesa del compimento del percorso burocratico e giuridico (che è lungo, farraginoso e umiliante), può tutelarne la privacy e proteggerle dal rischio di discriminazioni. 

La scuola può fare dunque molto, in collaborazione con la famiglia, soprattutto in termini di prevenzione del disagio, creando contesti accoglienti e inclusivi, in cui ognuno possa sentirti sicuro nel mostrare ciò che sente di essere e sviluppando quelle competenze necessarie per lo sviluppo di una cittadinanza attiva e consapevole, come il decision making, la comunicazione efficace e l’empatia.Le relatrici invitano, infine, ad accarezzare quella rivoluzione che sarebbe legata all’uscire finalmente dall’ottica categoriale, abbandonando il concetto di dicotomia e muovendosi verso quello di varianza di genere; ciò renderebbe evidente che, lungi dall’essere patologia di per sé, sono le aspettative sociali a creare problema, accarezzando anche l’idea provocatoria di passare dall’idea di “disforia” a quella di “euforia” di genere.

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