Silvia de Francia: Uomini e donne abbiano gli stessi diritti alle cure, non le stesse cure!
Sapevate che uno stesso farmaco può avere effetti diversi se assunto da un uomo anziché da una donna?
Lo spiegherà Silvia de Francia (Torino, ’76), farmacologa clinica e ricercatrice all’Università del capoluogo piemontese il 14 dicembre prossimo sul palco di TEDxTorino, https://www.ted.com/tedx/events/31297 dove illustrerà i risultati e gli obiettivi delle sue ricerche sulla farmacologia di genere. Ed il suo intervento, tramite la piattaforma TED, sarà ascoltato in tutto il mondo. In quell’occasione dirà subito che uomini e donne non possono assumere gli stessi farmaci con lo stesso profilo di sicurezza.
La sua sarà una sfida alle case farmaceutiche perché uomini e donne abbiano gli stessi diritti alla cura. Quindi non le stesse cure!
“Nelle mie ricerche sono partita dalla farmacologia clinica di routine in modo indiscriminato – ci dice Silvia- cioè, dal modo in cui si evolvono le malattie a seconda del genere. E ho riscontrato che sono sempre stati condotti studi solo su campioni maschili, trascurando del tutto la popolazione femminile. Di conseguenza, si sono sempre ignorati gli effetti che i farmaci possono avere sulle donne. Questo perché la donna è dal punto di vista biologico più complessa dell’uomo, ma più complessa non vuol dire che non possa e non debba essere studiata. Cosa si intende per complessa? E’ influenzata da molte variabili come, ad esempio, la fase premestruale, il ciclo mestruale, la gravidanza, la menopausa”. In uno studio inglese condotto su circa 20mila pazienti si è rilevato come il 59% dei ricoveri ospedalieri per reazioni avverse a farmaci fosse di individui di sesso femminile (Pirmohamed, 2004). Gli effetti collaterali, in sostanza, preferiscono di gran lunga le donne.
“Si parte dall’assunto che uomini e donne – aggiunge Silvia – oltre la sfera sessuale, siano uguali e, dunque, non occorra testare il farmaco in base al genere. L’esclusione delle donne semplifica l’analisi, garantendo un campione omogeneo: i farmaci vengono normalmente studiati su un campione costituito da individui di sesso maschile, di età media, sui 70 kg. E le donne? Le donne hanno il ciclo mestruale, partoriscono, allattano, assumono contraccettivi per via orale, vanno in menopausa: un iter che rende la loro vita molto variabile e, perciò, difficile da inquadrare. Eppure, secondo l’Istat, le donne si ammalano di più, usano di più i servizi sanitari e consumano più farmaci, associandoli, per altro, in modo frequente. La partecipazione delle donne agli studi di sperimentazione dei farmaci sarebbe, dunque, necessaria, perché una ricerca condotta soltanto sugli uomini restituisce una visione parziale in termini di sicurezza ed efficacia delle terapie, riducendo l’utilità dei risultati ottenuti.”
Negli ultimi anni, secondo le recenti indicazioni dell’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) e le più generali linee guida in ambito di medicina di genere, dettate dal Ministero della Salute, si è osservato un miglioramento.
“Un parziale arruolamento di pazienti di sesso femminile nei nuovi studi sta cominciando – spiega la ricercatrice – ma molti dei farmaci oggi in vendita e di largo consumo, testati in passato soltanto sugli uomini, continuano a non rendere facile la cura di molte patologie nelle donne. Alcuni farmaci per l’ipertensione, ad esempio, nelle donne funzionano meno, dando maggiori effetti collaterali. Le statine, tanto impiegate per abbassare i livelli di colesterolo, funzionano meglio nell’uomo. Parametri quali: dimensione e composizione corporea, così differenti fra i sessi, dovrebbero essere il punto di partenza per il calcolo reale della dose di un farmaco. Così, invece, non è. Dati, o meglio, differenze, alla mano, si suppone che in alcuni casi il farmaco possa avere addirittura un meccanismo d’azione diverso nei due sessi. Un’analisi di genere, dunque, è condizione necessaria per arrivare all’equità di cura. Finché ciò non avverrà le donne continueranno ad essere relegate a trattamenti in parte approssimativi e, per certi versi, poco appropriati”.
Negli USA sono stati condotti studi di medicina di genere già a partire dagli anni ‘90. In Europa si è iniziato a parlarne dal 2002. In Italia, ci fa sapere Silvia, dal 2008 è iniziata una fase di studio preliminare in questo senso. A maggio scorso il Ministero della Salute ha varato un Piano di Medicina di Genere, ma siamo ancora in una fase molto preliminare e sperimentale non ancora normata e applicata. Un dato interessante riguarda la popolazione mondiale femminile. Si calcola che la metà dei ricoveri ospedalieri femminili nel mondo siano causati da tossicità da farmaco”.
Ci sono farmaci da “differenziare” meglio per evitare rischi molto alti? “I rischi mortali hanno una variabilità troppo grande che cambia da soggetto a soggetto, al di là del genere – replica la studiosa- Io credo che tutti i farmaci debbano essere studiati e testati su tutte le popolazioni possibili: uomini, donne, adulti, anziani e bambini. Per il momento se ne parla poco, anche se comincia ad occuparsene anche il centro Studi di genere di Padova. I risultati dei miei studi dovranno prima entrare nella routine del Sistema Sanitario Nazionale e nel protocollo dei medici”.
Come le aziende del farmaco hanno reagito alle sue ricerche? “La ricerca per le aziende farmacologiche – dice – è sempre molto costosa, senza parlare del fatto che si dovrebbero rivedere tutti gli studi condotti negli ultimi cinquanta anni in cui si sono usati solo campioni maschili. L’azienda Novartis, però, da poco ha iniziato a studiare alcune molecole anche su campioni femminili”.
Silvia, che è giornalista dal 2005, divulgatrice scientifica, non esclude in futuro di scrivere una guida all’uso di farmaci “rosa”. “Il mio sogno più grande, però, è fondare un Centro di Farmacologia clinica di genere”.
fonte: https://www.magazine.tipitosti.it/