Donne di mafia

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Ripercorrendo la storia della mafia dagli anni Settanta fino al Duemila , è interessante cercare di capire il ruolo delle donne in seno all’organizzazione mafiosa.

La prima regola della morale sessuale di Cosa Nostra era, in quel periodo, quella dell’assoluto divieto dell’adulterio per entrambi i sessi. Sostanzialmente però c’erano delle differenze: per l’uomo si tolleravano alcune deroghe con l’impegno di un formale rispetto per la moglie dei propri figli, per la donna, invece, il divieto era assolutamente cogente. La violazione di questa regola da parte di una donna di mafia metteva a repentaglio l’onore su cui si fondava il prestigio del suo uomo e quindi andava punita con il massimo della pena: la morte.
Una sanzione che ha colpito parecchie donne, tra queste Giuseppina Lucchese e Luisa Gritti, rispettivamente sorella e cognata di Giuseppe Lucchese, killer della famiglia di Ciaculli.
Secondo la ricostruzione effettuata dal collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia nell’interrogatorio reso al giudice Falcone, la prima venne eliminata per punirla della relazione amorosa con il cantante Pino Marchese che a sua volta fu ritrovato cadavere con i genitali in bocca. Luisa venne invece uccisa simulando una rapina all’interno del” Bar Alba” di Palermo dato che la donna aveva assunto degli “atteggiamenti libertini” mentre il marito Antonio Lucchese era detenuto nel carcere dell’Ucciardone.
Sempre attraverso la simulazione di una rapina fu uccisa nel 1983 Rosalia Pipitone, figlia del boss Antonio. Il collaboratore di giustizia Francesco Onorato riferì che era stato proprio il padre a commissionare l’omicidio per punire quella figlia ribelle colpevole di non aver voluto sposare l’uomo che la famiglia le imponeva ma quello di cui era innamorata. Tra l’altro Lia voleva a tutti i costi staccarsi dall’ambiente familiare che la opprimeva e soffocava.
Il mafioso Leonardo Messina così ha dichiarato durante un interrogatorio:” La donna non è mai stata, né sarà mai affiliata ma ha sempre avuto un ruolo fondamentale. Uomini come me sposano la donna adatta: la figlia di un uomo come me. Cosa Nostra le controlla fin da bambine. Il patrimonio di un uomo d’onore è, principalmente, avere una donna consapevole del suo ruolo…la donna non si è mai seduta intorno al tavolo per una riunione ma c’è sempre stata lo stesso. Molte riunioni si sono svolte in casa mia, o in quella di mia madre o di mia sorella.Sentono tutto ma non possono dire nulla: le donne sono portatrici di segreti”
Questo quadro spiega anche come le donne dei mafiosi spesso hanno adottato una strategia comunicativa in difesa del sistema mafioso quando qualche loro congiunto si dissociava ed iniziava a collaborare con la giustizia. Il loro linguaggio ed il loro atteggiamento diventava duro, aggressivo, teso alla difesa di quel mondo di sopraffazione e di morte. Maledicevano ed insultavano chi tentava di liberarsi dal vincolo dell’affiliazione,mettendo in discussione, a volte, anche il valore sacro della maternità.
Giuseppa Mandarano, moglie di Marco Favaloro, collaboratore di giustizia e condannato per l’omicidio dell’imprenditore Libero Grassi così dichiara alla notizia del”pentimento” del marito: “Lui non è un pentito, è un infame. La stessa sera quando l’ho saputo ho aperto l’armadio, ho preso tutti i suoi vestiti e li ho bruciati: Qui a casa non c’è più niente di suo, nemmeno una camicia, nemmeno un fazzoletto.”
Ancora più dura la reazione di Agata Di Filippo al momento della diffusione della collaborazione dei fratelli Pasquale ed Emanuele: “Ci dissociamo completamente dall’operato di quegli esseri infami: Siamo chiuse in casa per la vergogna. Mio padre e mia madre sono distrutti” Il giorno dopo Agata ingerì una pesante dose di barbiturici per suicidarsi ma venne salvata.
Contestualmente le due mogli Giusy Spadaro e Angela Marino telefonarono all’ANSA dichiarando: “Siamo le ex mogli di quei due pentiti bastardi. Per noi loro sono morti” Addirittura Giusy disse ai suoi tre figli:” Non avete più un padre, rinnegatelo dimenticatevi di lui”
Ma queste reazioni furono spontanee e convinte o furono invece fatte per il terrore di poter subire vendette trasversali da parte dell’organizzazione mafiosa? Noi propendiamo per la seconda ipotesi anche perché in seguito molte di queste donne entrarono nei programmi di protezione. La stessa Giusy Spadaro nel 1997, inviò alla Corte d’Assise dinanzi alla quale si celebrava il processo per la strage del magistrato Paolo Borsellino e della sua scorta, una lettera del seguente tenore: “Cosa Nostra: due parole che significano morte e distruzione, e solo oggi, che grazie ai magistrati e al Servizio Centrale di Protezione ho potuto riabbracciare mio marito, ho capito quanto è bello vivere lontano da Cosa Nostra, io che ci sono nata e cresciuta e ho dovuto ripudiare pubblicamente mio marito per paura”.

Da tutte queste dichiarazioni e dai fatti raccontati dai “pentiti” si evince come queste donne vivevano la loro vita nella costante paura di vedere uccisi, da un momento all’altro, i propri mariti, figli, padri, fratelli. Succubi di un sistema di vendetta impietoso, irretite da regole che non potevano essere infrante, in bilico tra il sentimento dell’amore verso i propri congiunti e la voglia di vivere una vita normale senza violenza e sopraffazioni.
Emblematico è il caso di Vincenzina Marchese, sorella del collaboratore di giustizia Giuseppe e moglie del boss Leoluca Bagarella.
La donna nel 1983 viveva sotto falso nome nel rifugio del fratello Antonino, allora latitante, e, a seguito di un’irruzione della Polizia , insieme alla sorella e alla madre aveva avuto la spregiudicatezza di portare nei locali degli Uffici di Polizia dove era stata accompagnata una pistola, per sottrarla all’attenzione degli inquirenti.
Il difficile e travagliato percorso interiore che ha condotto la Marchese alla sua estrema decisione di autodistruzione ci viene raccontato da Antonio Calvaruso, il collaboratore di giustizia che è stato tra i più vicini a Leoluca Bagarella .
“Ricordo che moltissime volte ho accompagnato Leoluca Bagarella e la moglie Vincenzina Marchese in chiesa, sia a Pollina che a San Mauro Castelverde, che a Cefalù. Il Bagarella era molto religioso, tant’è che, ricordo, teneva dei santini in macchina e quadri della Madonna in casa. Ricordo anche che c’era l’immagine di una Santa, patrona dei detenuti, che lui portava con sé dovunque andasse. Nei primi mesi del 1994 la Marchese rimase in stato interessante e ricordo che quando il Bagarella si trasferì in via Malaspina, nel marzo del 1994, era già di due mesi circa; io stesso l’accompagnai un paio di volte dal ginecologo. Lo stesso Bagarella ebbe a dirmi che la moglie aveva subìto in passato due aborti. Durante l’ultima gravidanza, che a detta del predetto era quella protrattasi più a lungo delle altre, ricordo che la Marchese qualche volta mi mandava nella chiesa situata in via Maqueda, di fronte alla cosiddetta Piazza della Vergogna, per offrire in voto alla Madonna dei mazzi di rose rosse, perché proteggessero la sua gravidanza. La stessa ebbe però ad abortire, se non ricordo male, nel mese di marzo 1994 in ospedale. Mentre durante il periodo della gravidanza era rifiorita, dopo l’aborto cominciò a subire un processo di declino psico – fisico inarrestabile; ricordo che dimagrì paurosamente, le si imbiancarono i capelli e si trascurava andando sempre in giro con una vestaglietta. Non uscì più di casa ed era ossessionata dalla paura di essere sorpresa dalla Polizia. Guardava continuamente i telegiornali e stava sempre ad ascoltare in cuffia lo scanner, di cui il marito aveva la disponibilità, sintonizzato sulle frequenze della Polizia e dei Carabinieri.
Il Bagarella cercava di distrarla portandole a casa i familiari, anche con grave rischio personale, acquistandole vestiti e altro, ma tutto questo non riusciva in nessun modo a deviarla dai suoi pensieri negativi, anzi la sua ossessione era arrivata a tal punto che pure a casa portava delle parrucche proprio per evitare di essere riconosciuta. Quando andai a casa del Bagarella, da lui chiamato a seguito della morte della donna, il predetto, inginocchiato dinanzi al cadavere, diceva che la moglie lo rimproverava, addossandogli la colpa del fatto che non poteva avere figli: e infatti, la Marchese, che aveva saputo del rapimento del figlio del Di Matteo Santo, ritenendo che a questo non poteva essere conseguita che la soppressione del bambino, era convinta che a lei non poteva essere concesso avere figli perché il marito arrivava a uccidere anche i bambini e che per questo Dio la puniva.
Anche la collaborazione con l’Autorità Giudiziaria avviata dal fratello Giuseppe aveva profondamente turbato la Marchese, così come lo stesso Bagarella mi diceva, aggiungendo che ogni qual volta ne sentiva parlare in televisione rimaneva molto scossa e dinanzi al marito diceva che avrebbe ammazzato volentieri il fratello; lui però sapeva che questo non era vero, tant’è che per rassicurarla non le faceva pesare il fatto e le diceva che la cosa non gli importava più di tanto”.

Il suicidio di Vincenzina avvenne un pomeriggio del maggio del 95. Era in casa e stava stirando. Dopo aver finito si preparò un rudimentale cappio e si impiccò. Quando il marito la trovò chiamò Tony Calvaruso ed un altro uomo fidato: la morte della moglie non poteva essere pubblicizzata per non creare contraccolpi dentro Cosa Nostra e pregiudicare la sua latitanza. I tre uomini le cambiarono l’abito, la truccarono, la pettinarono poi la presero per le braccia e approfittando dell’oscurità uscirono di casa e la trascinarono nell’ascensore. Nel tragitto tra il portone e la macchina incontrarono alcuni inquilini. Fecero in modo di dare l’impressione che Vincenzina avesse avuto un malore.
Il boss la sistemò accanto al posto di guida e da solo se ne andò con lei. Il compito degli altri due era terminato e nessuno chiese dove la stesse portando.
Vincenzina si sottrasse così, definitivamente, a quel mondo mafioso violento che le aveva forse fatto perdere il senno.
Concludiamo riportando l’appello di Filippa Inzerillo, moglie del boss Giuseppe ucciso dagli uomini di Riina nel 1981 alle donne di mafia affinchè si ribellino e scelgano la via della vita e della libertà :”Donne di mafia ribellatevi. Rompete le catene,tornate alla vita . Sangue chiama sangue, vendetta chiama vendetta…lasciate che Palermo rifiorisca sotto una nuova luce, nel segno dell’amore di Dio”

 

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Profilo Autore

Ester Rizzo

Ester Rizzo giornalista e scrittrice nata a Licata nel 1963. Socia fondatrice dell’Associazione Toponomastica femminile. Curatrice del volume “Le Mille: i primati delle donne” (2017) Autrice di “Camicette Bianche “ (2014) “Le ricamatrici “ (2018) “Donne disobbedienti “ ( 2019) e “Il labirinto delle perdute” (2021)

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