C’è stato un momento in cui ho pensato potesse addirittura mangiarsi Beatrice Chebet, come ha fatto con le altre due avversarie Tsegay e Ngetich. Ma se per ora la campionessa keniana rimane imprendibile, sono sicura che in quei pochi istanti in cui la nostra Nadia Battocletti, «StraordiNadia» com’è ormai nota, è giunta quasi a sfiorarla, il brivido l’ha sentito. Chebet ha allungato il passo e chi s’è visto s’è visto ma Nadia l’ha costretta a farlo, non le ha concesso una vittoria «tranquilla».
Nadia è un riscatto. Sarebbe stata splendida pure da quarta con quella falcata precisa, asciutta ma armoniosa, tenace con grazia, da vera trentina. Invece, negli ultimi duecento metri, è balzata, anzi, sbalzata fuori come un bronzo del Cellini e ugualmente bizzarra, impietosa nella sua imprevedibilità, tutta nervi e ossa e muscoli, cuore & cervello. Ma anche consolazione, perché il suo scatto è una parabola della vita. Fino all’ultimo hai la possibilità di cambiare risultato.
Di scontato non c’è nulla, ogni minuto ha un senso. Lei, che è forte, lo è sempre stata, sorprende poiché sa essere fragile. La sua corsa ha qualcosa di sacrale nell’irrompere di un’energia finitima, che non è mai sprazzo o improvvisazione, ma frutto di lavoro silenzioso, invisibile al mondo, eppure continuo. Grazie, Nadia, non solo per l’immensa performance ma per questa parabola sulla vita che hai scritto con le tue gambe, il tuo corpo, la tua testa in un pomeriggio di fine estate, sul nastro arancione di Tokyo.
