di Leonardo Di Costanzo
con Barbara Ronchi, Roschdy Zem, Diego Ribon e con la partecipazione di Valeria Golino
Quando leggiamo la cronaca di tragici delitti in famiglia inevitabilmente ci poniamo molte domande. Perché certi crimini ci sembrano impossibili, non riusciamo a credere che si possa infierire con tanta ferocia su qualcuno che ci è accanto da sempre. Ci indigniamo per i delitti di mafia, per la criminalità organizzata ma in qualche misura ci spaventa meno: la capiamo. Si tratta di individui senza scrupoli che agiscono per denaro, per interesse. Per gente così rubare, uccidere è forse solo un mestiere come un altro, in cui sono caduti a volte anche per caso, altre per tradizione famigliare. Terribile, ma leggerne non ci destabilizza.

Di fronte invece a crimini come quelli di Pietro Maso o di Erika e Omar restiamo ammutoliti. Come hanno potuto? Che razza di persone erano? Quali rancori covavano? Perché ci spaventano così tanto? Proprio perché non li capiamo. La domanda ultima quindi diventa: potremmo anche noi, in determinate circostanze, arrivare a tanto? Ma no, se neppure uccidiamo una mosca e cerchiamo di farla gentilmente uscire dalla finestra. L’animo umano è quanto di più complesso ci sia e in questo film viene messo a nudo con pudore ma anche senza pietà. Si arriva a una risposta? No, ma molto viene smosso e analizzato senza la pretesa di capire ogni cosa. Il mistero alla fine resta.

Siamo in una località simbolo, una immaginaria residenza di montagna nella Svizzera francofona, che diventa un non-luogo. Il mondo esterno, la società, resta ai margini, siamo confinati in questa struttura di riabilitazione dei detenuti che in un regime di semilibertà vivono in semplici chalet fra gli abeti e lavorano.
Elisa, che entra in campo subito, cammina a passo spedito nella neve, fra gli alberi, stretta in un montgomery bordeaux, come i pantaloni. Spalle curve a sostenere un peso insopportabile. Silenziosa, sguardo vuoto, la ritroviamo in un’aula dove un criminologo spiega il suo lavoro sull’elaborazione della colpa, sul rapporto fra vittime e carnefici, sulla riabilitazione dei rei.
Man mano la storia si spiana. Elisa, che ha già scontato dieci anni di carcere gode ora del regime di semilibertà. Ha ucciso la sorella, forse si è macchiata di un’altra colpa ma lo scopriremo più avanti. Di famiglia borghese, riceve le visite del padre, l’unico che venga a trovarla e che continui a dimostrarle affetto e vicinanza.
La presenza del criminologo nella struttura non è limitata alla conferenza: è disponibile per colloqui “riparativi” con i detenuti, colloqui che hanno come fine quello di far rivivere il passato, “il fatto” e intraprendere la via della consapevolezza per poter ricominciare una vita diversa.

Elisa accetta di incontrare il criminologo e gran parte del film segue i loro colloqui. Barbara Ronchi è bravissima e si è cucita addosso un personaggio complesso, dove luci e ombre si confondono. Non riusciamo a capirla nello stesso modo in cui non capiamo certi delitti. A sprazzi ci sentiamo solidali con lei, poi di nuovo ci spaventa, ne percepiamo l’ambiguità e tutte le sue ombre. Elisa sa essere “normale” al punto che una delle guardie le dice: non posso credere che tu abbia fatto quello che hai fatto. E lei risponde glaciale: invece l’ho fatto.
Quella che vediamo è una lotta della donna con se stessa e con la verità. Al processo aveva dichiarato di essere stata vittima di un’amnesia, di avere agito in trance. e infatti era stata ricoverata in un ospedale psichiatrico. Le persone intorno a lei la proteggono, il lavoro di tutto il personale della struttura e anche delle altre detenute va nella direzione di un ritorno alla vita nella società civile. Ma Elisa deve fare i conti con se stessa.

Dice la verità? È una manipolatrice? Come si rapporta col passato e con il suo crimine? Cosa l’ha portata a commettere quello che ha fatto? Percepiamo il senso di inadeguatezza, l’invidia, le frustrazioni, la paura, la rabbia. E ora il tormento e l’indulgenza dell’autoassoluzione. C’era anche la follia? Spesso è comodo e anche consolatorio per tutti noi dare la colpa alla pazzia. Dire di qualcuno: è pazzo, non ha la capacità di intendere e di volere, ci rassicura, ci fa sentire più protetti.

Tanti temi importanti allineati sul tappeto. La colpa e il perdono, la comprensione dei fatti, il rispetto delle vittime. E sulla disperazione senza possibilità di ricomposizione c’è la scena meravigliosa del colloquio fra Valeria Golino (ogni volta impeccabile) e il criminologo. Non diciamo nulla. Perché va vista Il film. rifiuta ogni semplificazione e ricostruisce la complessità di una vicenda lasciando aperti tutti gli interrogativi più profondi. Non condanna, non assolve, cerca solo di capire fin dove può