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    Home»Costume e società»Viaggi»LA CITTA’ PERDUTA DI MACHU PICCHU
    Viaggi

    LA CITTA’ PERDUTA DI MACHU PICCHU

    DolsBy Dols11/01/2015Updated:13/01/2015Nessun commento6 Mins Read
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    machu-pichu
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    Partimmo d’inverno e arrivammo d’estate.

    di Marcella Cecconi

    Perugia, ottobre 1997.

    Era d’autunno, fuori pioveva.

    La compagnia teatrale Andanzas è lieta di annunciare la sua ultima produzione “La novia robada”, libera rivisitazione del testo di Juan Carlos Onetti su musiche di Astor Piazzolla, opera agita e danzata da sole donne vestite di nero e una sposa bianca. “En Santa Maria nada pasaba, era en otono, apenaz la dulzura brillante de un sol muribundo, puntual, lentamente apagado….”.

    Lima Perù, dicembre 1997.

    Partimmo che era inverno.

    Lasciammo un’Europa fredda e grigia, coperta da un cielo plumbeo e greve, un misto di smog e nuvole minacciose. Eravamo vestite a strati, come i viaggiatori veri, tanti veli – su veli – su veli di cui ci saremmo progressivamente liberate durante il tragitto, come si fa coi pensieri e le malinconie, spalmandoli fra due continenti.

    Fu un volo transoceanico degno del suo nome, carico di avventura e condito da una paura sentita e sincera.

    Sorvolammo per ore cieli neri come la pece che sprofondavano a picco sull’Atlantico, e attraversammo temporali all’altezza dell’Amazzonia brasiliana, abbagliati da fulmini improvvisi, e svegliati dagli echi sordi dei tuoni in lontananza.

    Qualcuno di noi pregava, ne sono certa, anche se da anni aveva giurato guerra ai preti, mentre altri dormivano, o almeno ci provavano, imbottendosi di tranquillanti strozzati malamente col pessimo vino offerto dalla compagnia aerea.

    Una donna peruviana, seduta vicino a me, iniziò a recitare una preghiera in latino. Ci avrebbe scortato sino alla fine del viaggio, mi disse: “Qui habitat in adiutorio Altissimi in protectione Dei caeli commorabitur…”. Era il famosissimo salmo 90, mi spiegò in seguito, una protezione potentissima. La memoria m’inganna, ma è possibile che abbia iniziato a salmodiare con lei, scaramanticamente.

    Le urla dei passeggeri intanto sottolineavano, come una lugubre litania, i sobbalzi, i vuoti, i salti, nell’apparente mancanza di gravità, e ci accompagnarono fino allo sbarco in Perù, in una sorta di agitazione vana e scomposta. Il viaggio fu un’esperienza viscerale: potei annusare la paura dei miei compagni, probabilmente lo stesso odore delle bestie che vanno al macello.

    Partimmo d’inverno e arrivammo d’estate.

    Lima era lì ad attenderci, calda, assolata e umida, colorata e caotica come una matura prostituta in disordine.

    Il mio primo ricordo è una maglietta lilla appiccicata al corpo dal sudore e sgualcita dal viaggio, ed il profumo intenso e pungente della frutta esotica, offerta dalla mano rugosa di una vecchia ambulante, che ci guardava incuriosita con un sorriso sdentato. Dovevamo sembrarle davvero buffe, col nostro aspetto da gatte arruffate e il pallore invernale, malaticcio e tipicamente europeo. Le comprai della frutta, un carico immediato di vitamina, nella speranza che mi conferisse un po’ d’energia, di colore e di buon umore.

    E così fu.

    Con una papaya in mano, mi avviai ad assaporare la magica vita del Sur, polposa e passionale.

    La vecchia, riconoscente, aprì una borsa di tela sdrucita e sporca e, tirandone fuori una piccola immagine raffigurante Santa Rosa da Lima, mi sussurrò : “buena suerte, querida!”.

    Ricordo ancora la sua stretta, vigorosa e franca, e i suoi occhi scuri e profondi come la notte; avrei giurato che fosse una bruja, una strega.

     

    All’aeroporto ci aspettava un taxi giallo, guidato da un tarchiato cileno, che ci portò di corsa verso l’albergo ed incontro alla fama.

    Alla radio una stazione locale trasmetteva le canzoni di  Laura Pausini.  Lui alzò di poco il volume sperando di farci cosa gradita, mentre sorrideva e ammiccava in uno spagnolo strascicato e assurdo che nessuna di noi capiva, spiandoci le cosce dallo specchietto retrovisore.

    L’interno dell’auto era tappezzato da immagini di santi e di papi, circondate da fiori secchi  e illuminate da finti moccoli di plastica che funzionavano a batteria: sembrava di stare in un santuario ambulante con luci psichedeliche.

    Ancora stordita dal fuso orario e dalle chiacchiere del cileno, l’ultima cosa che notai, prima di arrendere gli occhi al sonno, fu un’apparente incongruenza: le uscite della tangenziale che conducevano in città si chiamavano salida… uscita, salita, che poi era quasi sempre una discesa… Mi ci dovevo abituare.

     

    Lo spettacolo fu un successo, dieci repliche con critiche entusiaste, giornalisti, interviste, flash. Ci sentivamo delle vere dive, anzi di fatto lo eravamo. Io, per calarmi ancor più nel ruolo, mi comprai un enorme paio di occhiali scuri, dietro a cui mi nascosi, misteriosa.

    In poco tempo diventammo le italiane di cui tutta la città parlava, e di cui si potevano leggere dichiarazioni frivole e stralci di vita, pittorescamente ricostruiti dai rotocalchi locali.

    Eravamo “las italianas”, giovani, hermose e corteggiatissime, soprattutto dagli italo-peruviani, uomini i cui padri avevano fatto una fortuna in terra amerindiana nell’immediato dopoguerra. Ci invitavano ad uscire, volevano cenare, bere, farci ridere; volevano ballare il tango, vivere la notte, e sentire il suono delle nostre voci. Ci amavano con schiettezza e semplicità, così come si ama la bellezza e il profumo di una patria dimenticata.

    Io collezionai un’enorme quantità di fiori, alcune proposte di matrimonio accompagnate da bigliettini che finivano sempre con “te quiero, mi vida”, e svariati numeri di telefono che non chiamai e che col tempo andarono perduti, come il suono di dolci parole mai dette e abbracci rimasti in sospeso.

    Durante i venti giorni di prove e di rappresentazioni ebbi comunque il tempo di innamorarmi.

    Lui era il fotografo di scena che, romanticamente, mi chiese di quedar, restare; la passione sarebbe sbocciata come una rosa di maggio e saremmo vissuti per sempre in Perù, io e lui, nutrendoci d’amore e facendo fotografie in ogni angolo del sud America.

    Ma non era quello il mio destino e lui si arrese dinnanzi al muro dei miei no.

    Ci scambiammo solo un bacio appassionato e furtivo, in una mattina rubata al teatro, nella spiaggia di El Paraiso, immersi fra la terra e il mare.

    Di lui mi restano solo alcune foto, ricordo dolce-amaro dei suoi lunghi capelli biondi che si intrecciano coi miei al vento del Pacifico, e le note di una canzone “Vuelvo al Sur, como se vuelve siempre al amor, vuelvo a vos, con mi deseo, con mi temor”.

    Per lui, in seguito, spesi molto più di una lacrima.

    continua

     

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