di Matthias Glasner
con Lars Eidinger, Corinna Harfouch, Hans-Uwe Bauer,
La vecchiaia non è sempre divertente come quella che vediamo nei film di Netflix, gli anziani non sono tutti brillanti come i protagonisti de Il club dei delitti del giovedì. La terza età è molto più spesso un tempo crudele che avvicina lentamente alla fine. Senza pietà. Ed è così, senza pietà, inesorabilmente verso la dissoluzione, che stanno passando i loro ultimi anni Lissy e Gerd, una coppia che vive in un sobborgo cittadino nel nord della Germania. Un tempo forse si erano amati, una volta non avevano problemi economici, una volta, forse, erano anche una famiglia.
Adesso sono solo ombre. Gerd scivola sempre più nella demenza, è confuso, più fragile di un bambino e sua moglie Gerd non ha più l’energia per supportarlo. Anche lei non sta bene, ogni notte è più faticosa della precedente e i vicini se l’aiutano lo fanno solo per soldi.

Ha due figli, potrebbe cercarli, potrebbero aiutarla. Il primo capitolo del film è dedicato all’anziana coppia e niente si salva nella loro esistenza ormai alla deriva. Gerd finisce in una struttura protetta, ma i problemi restano.
Lissy chiama i figli. Le telefonate sono secche, fredde, mancano le parole, manca l’empatia, domina il non detto. Tutto è per sottrazione, con la paura di essere di disturbo. Quasi comunicazioni di servizio da cui Gerd si aspetta poco. Alla fine però Tom arriva e, come in un film di Bergman, affiorano lentamente vecchi segreti, antichi rancori che si pensavano estinti. E quando si trovano le parole per spiegare, feriscono più di una lama.

Secondo capitolo. Il protagonista è Tom. In fondo è un brav’uomo, in fondo vorrebbe anche aiutare i genitori, ma ha la sua vita, i suoi impegni. Direttore d’orchestra, sta cercando di portare in scena l’opera di Bernard, un caro amico compositore con un pessimo carattere. Depresso, se la prende con tutti e in primis proprio con Tom perché pensa che nessuno sia in grado di valorizzare nel modo giusto il suo lavoro. Il rapporto fra Tom e Bernard prende nel corso del film un’evoluzione che ne fa una storia a sé, fortissima, dolorosa con al centro interrogativi etici che restano domande importanti senza risposta, ricordando il film di Almodóvar.
Ma se nella storia interpretata da Julianne Moore e Tilda Swinton prevaleva, nonostante tutto, la luce del Mediterraneo, qui si impongono i colori grigi del Baltico e tutta la freddezza della tradizione calvinista. In ogni inquadratura il film si conferma coraggioso, onesto, sincero anche quando la verità ferisce profondamente.

Tom non ha a che fare solo con Bernard perché sta diventando padre. A modo suo (e ci sono tracce autobiografiche del regista): una sua ex compagna aspetta un bambino da un altro uomo, ma vuole che sia Tom a starle vicino. E anche a crescere il neonato. Insomma, neppure agli inizi di una vita si riesce a salvare se non la famiglia, almeno la coppia. Impossibile. I rapporti sono fragili, gli affetti ancora di più e inventare nuovi equilibri sembra un’impresa sovrumana. Ci portiamo appresso l’eredità del passato, troppe paure e l’ansia di creare una nuova condizione. Il dolore è in agguato, la frustrazione pure, i conflitti sono in campo da subito.
Poi c’è Ellen, la sorella di Tom, al centro del terzo capitolo. Più irruenta dell’introverso fratello lavora come infermiera in uno studio dentistico, beve troppo, si stordisce per riuscire a sopportare la vita e ha come amante il medico dello studio. Sposato. Quando lui le chiede di provare a stare assieme senza bere, lei sembra in preda al panico. Perché affrontare una relazione restando sobria diventa troppo pericoloso. Troppo impegnativo. Ellen non ne possiede i codici.

Le vite di tutti si intrecciano, i dialoghi sono sofferti e taglienti e non importa se l’eccesso di sincerità rischia di mandare in pezzi le esistenze di tutti. I protagonisti si aggrappano alla verità, quando finalmente hanno il coraggio di guardarla in faccia ed ecco che diventa l’ultima spiaggia, l’ancora per esistenze pallide e sempre subite, mai agite.
Gli attori sono tutti straordinari e si sente forte in ogni scena l’effetto delle lunghe prove, che immagino simili a sedute psicanalitiche in cui il regista ma anche gli interpreti erano disposti a tutto pur di avvicinarsi alla verità.
Eccoli allora tutti impegnati a scavare, cercare ricordi, ritrovare frammenti rimossi ma la riconciliazione col passato, cruciale per poter andare avanti, sembra sempre più lontana, qualunque energia venga messa in gioco.
Ci costa fatica vedere questo film e non per la durata (tanto, tre ore), ma perché mette in discussione, anzi, demolisce proprio un’istituzione alla quale noi, gente del Mediterraneo, continuiamo a essere molto legati.

Certo, sulla famiglia abbiamo da ridire in tutti i modi, non la finiamo mai di litigare, i conflitti vanno dalla culla all’ultimo respiro, solo con i partner possiamo provare rancori e disperazioni così intense. Tutto vero, ma la famiglia è sempre lì, la critichiamo, ma alla fine non smettiamo mai di crederci e anche se negli anni Sessanta se ne teorizzava la morte, è rimasta salda al suo posto. Riveduta, ammodernata, trasformata, allargata, d’elezione e non di sangue, di cuore, insomma variegata, ma non toglietecela mai!
Invece il film di Matthias Glasner (meritato Orso d’argento miglior sceneggiatura all’ultimo festival di Berlino) svuota l’istituzione famiglia e ne lascia solo il guscio vuoto. Vediamo scena dopo scena i nostri protagonisti prosciugati di affetto e travolti dallo scempio della (sacra) famiglia. E sapere che l’ispirazione di Lo spartito della vita è autobiografica ci fa stare ancora più male.