di Mario Martone
con Valeria Golino, Matilda De Angelis, Elodie, Corrado Fortuna, Antonio Gerardi, Francesco Gheghi

Per anni nessuno ha voluto pubblicare il suo romanzo, L’arte della gioia, uscito dopo la sua morte (nel 1996 a 72 anni) e solo grazie alla dedizione del marito, Angelo Pellegrino. Il libro vide la luce nel 1998 presso Stampa Alternativa (e poi nel 2008 da Einaudi). Tollerata dai salotti intellettuali del tempo, dove era entrata grazie alla sua lunga relazione con il regista Citto Maselli, Goliarda Sapienza fu sempre insofferente nei confronti del mondo intellettuale e borghese. Attrice, scrittrice, donna libera, più irregolare che anticonformista, chissà cosa penserebbe dell’interesse che sta suscitando in questo periodo non solo la sua opera ma anche la sua vita.

Da L’arte della gioia, considerato oggi uno dei capolavori del Novecento, Valeria Golino ha tratto una serie per Sky, molto premiata e di grande successo ed è proprio Valeria Golino per una coincidenza che ha qualcosa di magico a interpretare Goliarda Sapienza nell’unico film italiano in concorso al Festival di Cannes, Fuori, diretto da Mario Martone.

Il regista napoletano che torna a Roma dove aveva ambientato tanti anni fa il bellissimo Morte di un matematico napoletano, seguendo la sceneggiatura di Ippolita di Majo, sceglie per il film una strada al tempo stesso dilatata ed ellittica. Concentra il suo sguardo tutto sulla protagonista (Valeria Golino è praticamente in ogni scena) dipingendone il carattere con pennellate impressionistiche.
Rifiuta la via di una biografia a tutto campo e tanto meno esaustiva e procede per frammenti. Chi non sa nulla di Goliarda, uscirà dalla sala con la voglia di andare a recuperare la sua storia e le sue opere, per mettere ordine nelle affascinanti tessere passate sullo schermo.

L’impatto più forte, quasi violento sta tutto in quei (soli) cinque giorni passati da Goliarda, ai tempi aveva 59 anni, dietro le sbarre di Rebibbia per un furto: aveva infatti “rubato” alcuni gioielli a un’amica, gli ori erano stati poi trovati a un banco di pegni e risalire a lei era stato più che semplice. “Un’amica non ti denuncia”, commenta la protagonista nel film.
Inaspettatamente quei pochi giorni sono bastati a una donna così speciale come era Goliarda a instaurare dei rapporti strettissimi con alcune altre detenute, in particolare con una, Roberta, giovane, irruenta, autodistruttiva, in balia di eroina e terrorismo. Quel rapporto e quella esperienza avevano ispirato alla scrittrice due libri autobiografici, L’università di Rebibbia e Le certezze del dubbio, le fonti principali del film di Mario Martone.

Questa lunga introduzione è necessaria per sbrogliare la matasse nel film che, appunto, respinge la strada della biografia ordinata e procede per suggestioni, aiutato da una coppia di attrici strepitose, dirette con la mano lieve e precisa di un regista che indirizza lasciando però ampi spazi al cuore.

E le due protagoniste si sono impossessate totalmente del ruolo. Guardate i dettagli minuti delle interpretazioni di Valeria Golino (Goliarda) e di Matilde De Angelis (Roberta), osservate la mobilità degli sguardi, i movimenti nervosi delle mani, il tocco per spostare una ciocca di capelli, il modo di rovesciare la testa per una risata, la luce degli sguardi. Anche le parole che hanno la ricchezza musicale di suoni più complessi, le esitazioni, gli accenti, le impercettibili titubanze, insomma tutto concorre a mettere in scena vite vibranti, ruvide in cui irrompe la dolcezza dell’amicizia, della sorellanza e anche della seduzione.

L’equilibrio instabile nella relazione fra le due protagoniste a cui si aggiunge anche una terza detenuta (Elodie) stende il velo dell’emozione su tutto il film: in una scena le tre donne fanno la doccia assieme in uno scambio fortissimo, innocente eppure intimo ed erotico al tempo stesso.
Frammenti, scrivevo prima. Sì, perché di frammenti il film è composto, sono tutti momenti, quasi epifanie. Le scene nel carcere, dove si percepisce una rabbia trattenuta, così diversa da quella dei carceri maschili sono state girate a Rebibbia con vere detenute come comparse.

Seguiamo Goliarda e Roberta nel loro vagabondare disordinato per una Roma degli anni Ottanta ricostruita senza ossessione maniacale e per le strade, nei bar dove servono cattivi whisky, alla stazione Termini la loro insicurezza diventa la nostra, la loro impossibile serenità ci fa stare male, i loro momenti di intesa ci rasserenano per qualche istante fugace.

Un film difficile da fare, una storia spigolosa e tante trappole in cui si sarebbe potuti cadere. Martone ce l’ha fatta ma resta il dubbio di qualcosa alla fine di irrisolto: non capiamo i personaggi perché ci viene detto troppo poco. Ma forse il senso è proprio questo: ci sono donne così uniche che è impossibile raccontarle fino in fondo. Il mistero è nel loro essere.
