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    Home»Scrivilo su dol's»Narrativa»La sponda femminile della parola
    Narrativa

    La sponda femminile della parola

    DolsBy Dols03/03/2025Updated:03/03/2025Nessun commento4 Mins Read
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    Da Lady Oscar alla scrittura come arte di rivivere

    di Mattia Morretta

    Giunto in stazione a Milano per raggiungere Cremona, leggo sul tabellone delle partenze che la destinazione finale del treno regionale è Bozzolo (a causa dell’interruzione del tratto successivo verso Mantova). Così viaggio a ritmo lento attraversando “in carrozza” un paesaggio grigio e monotono, tipicamente padano, animato qua e là da allevamenti di mucche, avvolto in una nebbiolina sospesa, che mi richiama l’atmosfera di “Pampaluna” (Dalia Edizioni, 2024), romanzo ambientato poco lontano in terra mantovana, ove è nata l’autrice Sara Durantini, nota per aver curato la prima biografia italiana di Annie Ernaux. Un titolo che pare uscito da una filastrocca infantile o un cartone animato, e invece corrisponde a un luogo reale e onirico al contempo, una cascina lungo l’argine dell’Oglio che è stata e non è più, pertanto incancellabile nell’immaginario.  

    Ecco, un pregio dell’opera è la capacità di trasportare in uno scenario naturale e sociale di provincia, riportato in vita con immediatezza mediante sequenze di gusto cinematografico. Coprotagonista del racconto infatti è un mondo di campagna e corsi d’acqua, perenne nella sostanza in quanto esistenziale e materico, benché per forza di cose alterato e reso quasi reperto archeologico dallo sviluppo industriale degli ultimi decenni. Un territorio agricolo abitato mezzo secolo fa da un’umanità attiva ma rassegnata al sacrificio, con fisionomie appena abbozzate, eppure connotate da volti più autentici, come accade di pensare quando guardiamo foto del passato in bianco e nero o coi colori antecedenti al digitale. Negli interni domestici e negli spazi all’aperto le figure di ieri si muovono in sintonia con la corrente del fiume per poi trovarsi a correre su strade asfaltate, travolte dalla modernità nel forzato adeguamento alla mutazione antropologica già denunciata da Pasolini.

    Se l’affresco delicato è un punto a favore, altrettanto gradevole è il restare in bilico circa la veridicità, favorendo il dubbio che la vicenda sia prodotto dell’immaginazione e non cronaca biografica in bella forma. Per fortuna non vi trovano posto gli ingredienti del consueto menù di sesso, droga e violenze gratuite, l’esasperazione di prammatica delle pubblicazioni di moda oggi. La sofferenza e la solitudine della protagonista, pedina attonita e silente sullo scacchiere di un sistema famigliare in disgregazione (per la separazione dei genitori e il venir meno dei nonni), sono contenute nei limiti dei processi di crescita, le cui frustrazioni sono inevitabili e in fondo utili, come nelle fiabe.

    Nessuna sorte eccezionale, se mai l’imprevista risposta creativa di una fanciulla ferita dall’ordinaria povertà comunicativa vuoi del parentado vuoi del vicinato, pronta a cogliere la luce di speranza offerta dalla capacità di attenzione di singole presenze fedeli al ruolo di prossimo (soprattutto le insegnanti). Saranno difatti le frasi, vergate in segreto sul quaderno scolastico, la bacchetta magica che trasformerà in eroina dell’altrove della scrittura una piccola Cenerentola tra le tante, menomata da un disturbo del linguaggio, inquietata dal dettato e soprattutto dal non detto dei grandi, i segnali sonori e visivi di un contesto da decifrare e rielaborare in proprio, cercando un’identità femminile autonoma e tuttavia condivisibile.

    Fa riflettere sorridendo l’inquadramento storico leggero e giocoso, grazie alle notizie di cronaca fornite da stampa e TV, gli aggiornamenti del costume e del pudore associati a canzoni popolari, personaggi di animazione (la mitica Lady Oscar) e del cinema, celebrità del periodo. Perché è quel che accade davvero, mentre si dipana la matassa delle nostre vite dalla radio risuonano ritornelli musicali in voga, sugli schermi si susseguono immagini d’impatto che si imprimono sulla retina, la società procede spedita in modo macchinale e annulla le singole individualità nella frastornante collettività, o peggio nella massa.

    Forse avrebbe giovato più costanza, cioè mantenersi linearmente sul livello narrativo straniante. Perché dal volo descrittivo e dalla distanza di sicurezza dell’evocazione in alcuni momenti si scende d’un tratto al piano terreno, con concessioni all’ideologia o al realismo (per esempio, sul patriarcato, la subordinazione femminile, la coscienza di classe), oppure con precisazioni su fatti contingenti. Quando poi si tende a far coincidere troppo la protagonista e l’autrice il rischio è di scivolare dal flusso di coscienza al moto centripeto verso l’ego privato. Perché in letteratura il risultato è tanto più efficace e duraturo quanto minore è l’autocompiacimento o autocompatimento, e non serve dichiarare “in fede” in calce al testamento. È mai esistita Pampaluna? E la nostra acerba stagione? Chissà, direbbe Anna Achmatova:

    Qui c’era una casa quasi bianca,
    una veranda di vetro.
    Tante volte – la mano smarrita –
    strinsi il cerchio del suo campanello.

    Ma qualcuno l’ha spostata,

    portata in città straniere,

    o per sempre strappato al ricordo

    la via che vi conduceva…

    (La bianca casa, 1914)

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