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    Home»Pari opportunità»La follia e la colpa
    Pari opportunità

    La follia e la colpa

    Simona MerianoBy Simona Meriano10/02/2016Updated:11/03/2016Nessun commento6 Mins Read
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    la follia e la colpa
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    La violenza sulle donne è un’emergenza sociale gravissima, ma non sembra esserci la ferma e convinta volontà politica di cambiare lo scenario.

    Non voglio una Ministra per le Pari Opportunità, voglio una Ministra per le Politiche di Contrasto alla Violenza e l’Educazione di Genere, che si faccia carico della situazione e sia promotrice di azioni forti, in ambito sociale, educativo e culturale.

    In concreto?

    • Fondi mirati per i progetti di tutela e supporto delle vittime,
    • un programma serio di formazione obbligatorio per tutte le figure professionali che entrano in contatto con le donne vittime e potenziali vittime,
    • un intervento informativo ed educativo nelle scuole per insegnanti e studenti.

    Vorrei che questa Ministra cominciasse a tirare fuori dai polverosi archivi del Governo i manuali scritti negli anni dalle operatici e dagli operatori sociali che hanno lavorato per anni nei progetti di accoglienza delle vittime di violenza e delle vittime di tratta, perché sono ricchi di contenuti importanti, metodologie, buone prassi, analisi accurate di punti deboli e punti di forza. L’onorevole Boldrini guarda con ammirazione al metodo Scotland che a Londra sta “facendo miracoli” contro la violenza sulla donne e si dimentica che interventi molto simili e di provata efficacia li abbiamo realizzati anche noi con i fondi dei Progetti europei Equal, per l’inclusione socio lavorativa delle persone vittime di tratta. Peccato che finiti i progetti non sono state investite risorse per dare continuità al lavoro.

    Non ci mancano le metodologie e le competenze professionali, abbiamo anche l’esperienza, ci manca un concreto e continuativo appoggio politico e finanziamenti strutturali. Lo sappiamo che alle vittime serve l’accoglienza immediata, opportunità di lavoro e autonomia. Sappiamo che le leggi ci sono e che vanno applicate con buon senso e intelligenza. E che ci vuole una rete sociale, professionale e istituzionale capace di ascoltare le donne, di recepire la sofferenza, di valutare i rischi. Ma più di qualsiasi altra cosa abbiamo bisogno di una rivoluzione culturale, perché il mancato riconoscimento della natura politica della violenza come strategia di dominio sul femminile sia in tempo di pace che in tempo di guerra, rende la violenza stessa un potente mezzo di sopraffazione che va a rafforzare la concezione patriarcale delle donne come creature inferiori. Ovunque.

    Il continuum della violenza va spezzato attraverso la destrutturazione degli stereotipi che avvolgono le identità di genere e il rifiuto delle categorie comunemente usate dai mass media per definire le relazioni tra uomini e donne. C’è continuità culturale tra lo stupro usato come arma di guerra e la violenza di genere in tutte le forme più o meno cruente che affligge la nostra società. Due macro categorie sono adoperate sistematicamente per leggere il fenomeno, talvolta in modo molto subdolo: la follia e la colpa. In sintesi, davanti a un crimine sessuale, a un delitto “passionale” e alle violenze domestiche, l’interpretazione comune è questa: LUI è un folle, LEI avrà fatto qualcosa per meritarselo. Io non posso più accettare che si continuino a diffondere pregiudizi di tale portata. Relegare l’uomo aggressore in uno stato di semi-umanità, definire il suo comportamento “bestiale” quando invece si tratta di un comportamento tipico del maschio umano (le bestie non stuprano e non torturano), invocare la perdita di ragione a fronte di azioni violente che hanno forte pregnanza culturale, non è più accettabile. Insisto nel sottolineare che la cultura della violenza sulle donne è globale e ben radicata. L’ideologia sessista, fortemente discriminante e fallocentrica lega vittima e colpa in una spirale di perversione, esplode in modo violento con i conflitti armati, ma si insinua in ogni piega del tessuto sociale in tempo di pace.

    Abbiamo una grande responsabilità nei confronti di noi stesse e di tutte le altre donne : se continuiamo a tollerare contesti colpevolizzanti in cui le vittime non osano denunciare gli abusi per paura di non essere credute o peggio ancora di venire giudicate, significa nostro malgrado confermare un’immagine femminile colpevole a priori. Per questo motivo non riusciamo a contrastare il fenomeno sommerso e gravissimo delle molestie sul lavoro (e non commento la vergognosa sentenza che ha assolto il capoufficio per la “fugace pacca sul sedere” alle sue impiegate). Minimizzare e giustificare è molto rischioso, la Storia è piena di stupri dimenticati e di vittime invisibili.
    Quella del silenzio continua a essere la strada scelta dalla maggior parte delle donne, perché il prezzo da pagare uscendo allo scoperto è troppo alto. Quante tragedie si potevano evitare? La maggior parte dei femminicidi era prevedibile. Molte storie di violenza sono tragedie annunciate. Sono storie appunto, percorsi, in cui le vite delle persone accadono in un tempo e in un luogo in cui sono presenti testimoni. Quando una donna come Carla viene bruciata viva con la sua bimba in grembo ci sono delle responsabilità sociali. Io penso che sia stata lasciata sola e che l’uomo definito dal giudice “evidentemente incline a scoppi di furia brutale” poteva essere fermato. Prima. I segni di un’ “indole notevolmente violenta” certamente si manifestavano da tempo e la follia non è esplosa all’improvviso. L’ex marito voleva “punirla”, lei, colpevole di tradimento prima di tutto rispetto all’identità ideale costruita nella mente di lui, che ha usato la violenza per riprendere possesso dell’oggetto femmina che stava sfuggendo al suo controllo. Si tratta del tentativo estremo di addomesticare l’alterità ed è espressione della massima ambivalenza: ti anniento perché ti desidero ma non riesco a possederti in modo assoluto.

    È la stessa dinamica identitaria insita nello stupro etnico. E quello che sconvolge fortemente in tutte le storie di violenza sulle donne è la crudeltà, una crudeltà simbolica e rituale che nel tempo non ha perso significato ma ne ha abbondantemente ricevuto. Anche dall’opinione pubblica. L’omicidio di Ashley, la ragazza americana, è stato brutale, ma altrettanto brutale è stato il trattamento che le hanno riservato i mass media. I giornalisti, appena ritrovato il corpo hanno subito insinuato che si trattasse di “un gioco erotico finito male”, da lì in poi abbiamo assistito ad un vergognoso susseguirsi di notizie che andavano a scavare morbosamente nella sua vita privata. Se la vittima fosse stato un anziano signore ci sarebbe stato lo stesso accanimento mediatico? Certo che no. Invece una donna bella e libera può essere processata in piazza, anche se è stata ammazzata. Ha aperto la porta a un uomo, per di più senegalese e ha avuto un rapporto sessuale consenziente, è evidente che se l’è cercata. Questo è il messaggio che è passato, questa è la cultura fallocentrica e sessista che non riconosce nel corpo ucciso una vita spezzata, ma vede soltanto una femmina dissoluta che ha tradito il fidanzato ed è stata punita. No, non è stata stuprata dal suo assassino. A quello ci abbiamo pensato noi.

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    Simona Meriano
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    Simona Meriano, nata a Torino nel 1970, antropologa, social worker e autrice, è impegnata da oltre 20 anni in progetti di empowerment femminile e di contrasto alla violenza, occupandosi in particolare di problematiche relative alla salute, alla migrazione e alla tutela dei diritti delle donne e dei bambini. Socia fondatrice dell’Associazione TAMPEP Torino nel 2001, è stata responsabile dei programmi di protezione sociale per le vittime della tratta e si è dedicata alla formazione di operatori socio-sanitari, mediatori interculturali, personale di polizia. Dopo alcuni anni vissuti a Bali, in Indonesia, è tornata in Italia e ha fondato nel 2016 l’Associazione “Le Ali di Wen - Women Empowerment Network”.

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