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    Home»Costume e società»Reyhaneh Jabbari non riposa in pace
    Costume e società

    Reyhaneh Jabbari non riposa in pace

    Marta AjòBy Marta Ajò26/10/2014Nessun commento4 Mins Read
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    Reyhaneh Jabbari
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    Reyhaneh aveva denunciato chi voleva stuprarla e che lei ha ucciso per difendersi.

    Aveva 26 anni, Reyhaneh e da 5 era in carcere, chiusa nel braccio della morte dal 2009, in attesa della sua esecuzione che è avvenuta ieri notte. Cosa aveva fatto questa giovane donna, di così terribile da meritare di essere impiccata come il peggiore dei malviventi? Aveva denunciato chi voleva stuprarla e che lei ha ucciso per difendersi. L’uomo che l’avrebbe attirata nel suo appartamento con la scusa di offrile un lavoro, tentando invece di abusare di lei. Forse non è solo questo che è stato tenuto in considerazione nella sua condanna ma anche il fatto che l’uomo ucciso fosse un ex agente dei servizi segreti e non sapremo mai la verità. Forse ha pesato il rifiuto della giovane di acconsentire alla richiesta del figlio del morto affinché ricusasse la denuncia di un tentato stupro e se è vero, che questo figlio, di sentimenti nobili verso un padre violento ha assistito all’esecuzione, anzi avrebbe partecipato personalmente all’impiccagione, rende bene l’immagine di quella realtà.

    Troppe irregolarità paiono avere viziato il processo e la sua conclusione, anche secondo la denuncia del relatore dell’Alto commissariato per i diritti dell’Onu. Non si è voluto riconoscere la legittima difesa di fronte ad un tentativo di stupro di una ragazza di venti anni. Noi sappiamo immaginare la sua disperazione, la sua paura, il suo ribrezzo per quell’uomo e il modo in cui si è difesa andava sicuramente considerato con attenuanti valide per la commutazione della pena. Ma Reyhaneh ha avuto la sfortuna d’incontrare quell’uomo e il suo destino in un paese che ultimamente ha condannato a morte cinquecento persone; un paese che non si può permettere di mostrare debolezze rispetto ai paesi confinanti. Infine in una cultura che si basa sul terrore, dove si accetta che le donne vengano sfigurate e massacrate con l’acido. Gli uomini la fanno da padroni e il regime li sostiene.

    Reyhaneh era troppo forte, con il suo rifiuto al patteggiamento e il non volere ritirare la denuncia della tentata violenza, cercando di dimostrare che fu legittima difesa e soprattutto facendo del suo, un caso per l’opinione internazionale. Era una sfida e non si poteva permettere che la vincesse. In Iran, un paese in cui le donne sono vessate in ogni modo, dalle famiglie, dalla società e dalla politica, vittime designate di leggi e culture congelate, la sua non poteva essere una battaglia a lieto fine. Nonostante la mobilitazione che si è attivata attorno al suo caso, gli appelli della madre affidati all’AKI-Adnkronos International, né la campagna in sua difesa promossa su Facebook.

    Reyhaneh, vogliamo ricordare ancora una volta il suo nome, la giovane iraniana condannata a morte per l’uccisione dell’uomo che voleva stuprarla, è stata impiccata a mezzanotte. All’esecuzione erano presenti i suoi genitori e il figlio del mancato stupratore, che avrebbe tolto lo sgabello da sotto i piedi della ragazza. A nulla sono valsi gli appelli internazionali, fra cui quelli di Papa Francesco, di Amnesty International, del ministro degli Esteri Federica Mogherini e di tantissimi intellettuali iraniani. La nostra ministra Federica Mogherini si è espressa con queste parole “L’uccisione di Reyhaneh è un dolore profondissimo. Avevamo sperato tutti che la mobilitazione internazionale potesse salvare la vita di una ragazza che invece è vittima due volte, prima del suo stupratore poi di un sistema che non ha ascoltato i tanti appelli , a conferma che è proprio sulla difesa dei diritti fondamentali che il dialogo tra i Paesi resta più difficile. Eppure, la difesa dei diritti umani e l’abolizione della pena di morte sono battaglie fondamentali che l’Italia non rinuncerà mai a portare avanti in tutte le sedi”. Forse sono anche le parole che in questi lunghi cinque anni, Reyhaneh attendeva ma che arrivano troppo tardi per lei. Sulla pagina di Facebook a lei dedicata ora c’è la scritta “Riposa in pace”. Forse, se la crudeltà della sua morte può avere un significato perché si faccia dei diritti delle donne una battaglia di tutti. Forse se il buio in cui le donne iraniane devono confrontarsi attiva la solidarietà internazionale di tutte le altre donne e di tutti gli altri paesi. Forse e solo allora potrà riposare in pace.

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    Marta Ajo
    Marta Ajò
    • Website

    Marta Ajò, scrittrice, giornalista dal 1981 (tessera nr.69160). Fondatrice e direttrice del Portale delle Donne: www.donneierioggiedomani.it (2005/2017). Direttrice responsabile della collana editoriale Donne Ieri Oggi e Domani-KKIEN Publisghing International. Ha scritto: "Viaggio in terza classe", Nilde Iotti, raccontata in "Le italiane", "Un tè al cimitero", "Il trasloco", "La donna nel socialismo Italiano tra cronaca e storia 1892-1978; ha curato “Matera 2019. Gli Stati Generali delle donne sono in movimento”, "Guida ai diritti delle donne immigrate", "Donna, Immigrazione, Lavoro - Il lavoro nel mezzogiorno tra marginalità e risorse", "Donne e Lavoro”. Nel 1997 ha progettato la realizzazione del primo sito web della "Commissione Nazionale per la Parità e le Pari Opportunità" della Presidenza del Consiglio dei Ministri per il quale è stata Editor/content manager fino al 2004. Dal 2000 al 2003, Project manager e direttrice responsabile del sito www.lantia.it, un portale di informazione cinematografica. Per la sua attività giornalistica e di scrittrice ha vinto diversi premi. Prima di passare al giornalismo è stata: Consigliere circoscrizionale del Comune di Roma, Vice Presidente del Comitato di parità presso il Ministero del Lavoro, Presidente del Comitato di parità presso il Ministero degli Affari Esteri e Consigliere regionale di parità presso l'Ufficio del lavoro della Regione Lazio.

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