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    Home»Costume e società»Figli: solo questione personale o di interesse comune?
    Costume e società

    Figli: solo questione personale o di interesse comune?

    Francesca LemmiBy Francesca Lemmi14/07/2013Updated:21/07/2014Nessun commento6 Mins Read
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    La maternità è osannata e urlata a gran voce come un investimento su cui puntare di più, ma poi che si fa per sostenerla?

    Da quando ho iniziato ad aprire gli occhi su ciò che mi circondava a e a riflettere sulla società nella quale vivevo e tuttora vivo, ho fin da subito colto contraddizioni e paradossi che sono rimasti fino ad oggi dei punti interrogativi in attesa di risposte tuttora latitanti e di dimostrazioni confutanti che stento a trovare. Fra questi paradossi, sicuramente ce n’è uno che mi sta particolarmente a cuore e su cui rifletto, leggo e studio da tempo, ma senza trovare risposte e spiegazioni logiche e ragionevoli e che continua a lasciarmi solo molta amarezza, incredulità e rabbia.

    Mi sono sempre interessata dell’universo femminile in tutte le sue sfaccettature ma ammetto che da quando sono diventata mamma, l’interessamento e la dedizione al mondo delle donne e delle mamme è cresciuto e sia dalla mia esperienza personale e diretta sia attraverso il mio lavoro di psicologa che dagli studi e letture che ho intensificato in merito, ho compreso che la questione maternità sia un punto critico su cui si annida uno dei più grandi paradossi ed errori della nostra società e politica.

    Viviamo in un contesto socio-culturale e religioso in cui la maternità è osannata e urlata a gran voce come un investimento su cui puntare di più, visto che siamo uno dei Paesi Europei con minor tasso di natalità (1,3 figli per donna) e che registra un progressivo decremento di nascite: nel 2012 sono state registrate 12 mila nascite in meno rispetto al 2011, pari al -2,3%, in linea con un andamento decrescente iniziato nel 2009 (dati Istat). Lo stato di allarme sul basso tasso di natalità, oltretutto in difetto se confrontato anche col tasso di mortalità, oramai da anni ci pone davanti uno scenario di progressiva riduzione e graduale invecchiamento della popolazione italiana.
    La Chiesa non perde occasione per richiamare l’attenzione sulla famiglia, sulla procreazione (chiaramente all’interno del sacro vincolo del matrimonio) e sui bambini.

    Dalle donne arrivate alla soglia dei 30 e figuriamoci dei 40 anni, ci si aspetta che diano vita a degli eredi e se questo non si verifica o non si è ancora verificato (maternità: solo questione di scelta?), ci si chiede quando lo faranno e cosa aspettano, visto e considerato che continua a prevalere la convinzione popolare che una donna si senta completa e realizzata solo se madre e che la maternità sia una normale e fisiologica tappa nella vita di una donna.

    Se da una parte pertanto si professa a più voci l’opportunità di procreare e di avere figli per vari e diversi motivi, sicuramente centrati sulla donna ma anche relativi alla società e al Paese, quando poi si arriva al dunque, ovvero alla fatidica decisione di avere un figlio e quindi anche a concretizzarlo, deserto. Tutti si dileguano, perché a quel punto improvvisamente la maternità diventa una questione personale e intima della donna (al massimo, della coppia), da cui la società, la politica, l’economia e il mondo del lavoro prendono le distanze.
    Nel descrivere questo contraddittorio e paradossale aspetto, Chiara Saraceno parla di “familismo ambiguo”: da una parte il nostro Paese mette la famiglia al centro della società ma poi di fatto non garantisce un welfare che si occupi e sorregga la famiglia, anzi delega la gestione di essa ai singoli cittadini laddove in molti altri Paesi è al centro della politica sociale e di interesse comune.

    Quando i figli arrivano davvero, la realtà con la quale si fa i conti è desolante e paradossale: la società che sollecitava a procreare, è quella che non garantisce sufficienti asili e scuole per l’infanzia per facilitare la conciliazione figli e lavoro, pertanto la scelta dinanzi alla quale le donne non raramente si ritrovano è quella di lasciare il lavoro per mancanza di aiuti nella cura e gestione dei figli oppure di devolvere lo stipendio per coprire le spese relative alla cura dei figli, con la conseguenza in entrambi i casi di un impoverimento del nucleo familiare.
    Se poi vogliamo completare il quadro ben poco gaio e incoraggiante, diciamo che il mondo del lavoro non è sicuramente a misura di madri: se si è in un’età potenzialmente fertile e quindi a rischio maternità, la percentuale che si possa essere prese in considerazione per un’eventuale offerta di lavoro si riduce drasticamente; se osiamo avere figli e quindi assentarci per il periodo di maternità, consideriamoci fortunate se al nostro rientro, non subiamo alcuna forma di esclusione, declassamento o penalizzazione sul lavoro e nel nostro percorso professionale.

    Le riflessioni da fare sono tante, ma il punto su cui voglio soffermarmi è il paradossale e assurdo atteggiamento da parte del mondo politico, della società e dell’economia nei confronti della maternità: continua ad essere considerato e trattato come un fattore personale e intimo, quando, invece, dovrebbe essere il primo punto nell’agenda politica, sociale ed economica del Paese.

    Perché?
    In primo luogo, natalità e occupazione femminile sono strettamente legati: garantire una politica di welfare per le famiglie, implica un aumento dell’occupazione femminile, che, a sua volta, determina un aumento delle nascite e quindi della richiesta di servizi per l’infanzia, ovvero aumento di posti di lavoro.
    D’altronde come scrive Maurizio Ferrera nel suo libro “Valore D”, “il nostro Paese è intrappolato in un circolo vizioso: la scarsità di servizi è collegata alla bassa partecipazione lavorativa delle donne, che a sua volta è collegata alla scarsità di servizi”. E conclude: “se le donne lavorano, fanno più figli; se non lavorano, ne fanno di meno o non ne fanno proprio”.

    Inutile ricordare che maggiore occupazione femminile implica riduzione della disoccupazione e quindi dei costi sociali e maggiori contributi fiscali, oltre ad un aumento della produttività, in quanto verrebbe utilizzato un potenziale per il momento lasciato in panchina.

    Più figli significa aumento dei bisogni e dei consumi (ricordiamoci che l’80% dei consumi è “rosa” e che una discreta percentuale di spese è per i figli) e potenzialmente anche aumento dei servizi per l’infanzia, quindi potenziale aumento dei posti di lavoro (almeno nel sociale).
    Il legame è abbastanza semplice e chiaro: maggiore occupazione femminile – maggiore tasso di natalità – maggiore richiesta di servizi (sia perché le famiglie con doppio reddito hanno maggiori disponibilità economiche sia perché aumentano le esigenze) – aumento dei posti di lavoro (almeno nel settore sociale e dell’infanzia).

    Infine investire sulla maternità, implica arrestare il fenomeno della “anoressia riproduttiva”, come l’ha definita Maurizio Ferrera, e promuovere il futuro del Paese.

    fracesca lemmi maternità riproduzione coppia
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    Francesca Lemmi
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    Dr. Francesca Lemmi, Psicologo Clinico, Psicoterapeuta Cognitivo-Comportamentale e Sessuologa. Dopo un’esperienza pluriennale nella realtà ospedaliera, svolge attività di psicologo e psicoterapeuta con bambini, adolescenti, adulti e coppie come libero professionista. Inoltre si dedica ad attività di formazione, in particolare nell’ambito della genitorialità, della coppia e della psicologia e pedagogia di genere. In virtù del grande interesse per la materia della famiglia, coppia e figli, da molti anni si dedica ed esercita anche nell’ambito della psicologia giuridica in situazioni di separazione/divorzio e affido minori.

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