di Massimo Longo
Nello sport e nella vita arriva un punto in cui non è la determinazione a decidere, ma la fragilità del corpo. Un momento in cui non è l’avversario a piegarti, ma il tuo stesso corpo. Jannik Sinner lo ha vissuto sulla propria pelle, davanti al mondo intero, nella finale di Cincinnati contro Carlos Alcaraz.
L’attesa era altissima: numero 1 e numero 2 del mondo, due ragazzi che stanno scrivendo un nuovo capitolo del tennis. E invece la partita che avrebbe dovuto incendiare gli spalti si è trasformata in un incubo. Sin dal primo game, Jannik è apparso irriconoscibile: pallido, lento nei movimenti, quasi incapace di reagire. Sullo 0-5, dopo appena 23 minuti, si è fermato. Ha alzato lo sguardo, ha chiesto scusa e ha lasciato il campo.
“Ho provato a scendere in campo per rispetto dei tifosi – ha detto – ma non ce la facevo. Da ieri mi sentivo male, speravo di migliorare nella notte ma invece è peggiorato tutto.”
Nelle sue parole c’era dispiacere, ma anche verità. “Mi spiace davvero, so che molti di voi domani lavorano eppure siete venuti qui. Non volevo deludervi, ma oggi non era possibile.”
Il pubblico, inizialmente spiazzato, ha capito. L’applauso che ha accompagnato Sinner fuori dal campo non era un applauso tecnico, ma umano. Non premiava i punti giocati, ma il coraggio di mostrarsi fragile.
Alcaraz, dal canto suo, ha abbracciato l’amico-rivale con parole sincere: “Non avrei voluto vincere così. So come ti senti, ma sei un campione immenso e tornerai più forte, come sempre.” Così come è accaduto con Dimitrov quando Sinner si trovò la qualificazione al turno successivo tra le mani a causa del ritiro del bulgaro dove pronunciò più o meno le stesse parole, perchè il tennis è questo, non è come il calcio, barbaro, rude, ignorante, inumano, senza scrupoli, vigliacco, sporco e viziato. No. Il tennis è un gioco pulito, sincero, leale, umano dove tutti parlano, e capiscono, l’inglese, dove manca l’ignoranza, dove prevale il senso dello sport.
In quel gesto c’era la bellezza dello sport: competizione accesa, ma anche rispetto e solidarietà.
Molti tifosi davanti agli schermi – me incluso – hanno vissuto la stessa sensazione che si respirava sugli spalti: smarrimento, tristezza, un pizzico di impotenza. Perché quando un campione crolla non per merito dell’avversario, ma per un malessere improvviso, ci ricorda che nessuno è invincibile.
Eppure proprio in questa fragilità si nasconde qualcosa di più grande. “Ammettere i propri limiti non è debolezza, ma forza” scriveva Seneca. Anche Arthur Schopenhauer, ha riflettuto sulla fragilità umana e sulla necessità di riconoscere le proprie vulnerabilità per vivere in modo autentico. Fermarsi quando il corpo non regge è un atto di lucidità e di coraggio. È la prova che lo sport non è solo spettacolo, ma anche verità.
Sinner, con il volto stanco e le parole rotte dall’amarezza, ha dato una lezione che va oltre il risultato: ci ha ricordato che l’atleta è prima di tutto un uomo. Che dietro al numero 1 del ranking c’è un ragazzo di 24 anni che lotta, che cade, che soffre, e che – proprio per questo – ci emoziona.
La finale di Cincinnati non entrerà negli annali per i colpi vincenti, ma resterà nella memoria per ciò che ha mostrato: la vulnerabilità di un campione, la compassione di un avversario, la vicinanza di un pubblico che ha applaudito più forte quando la partita è finita troppo presto.
Oggi resta l’amarezza, sì. Ma domani, quando Jannik tornerà in campo, avrà dentro di sé una fame ancora più grande. Perché chi sa accettare la fragilità diventa più forte. E lo sport, ancora una volta, ci ha insegnato che la vera vittoria non è sempre scritta sul tabellone, ma nel coraggio di restare autentici.
Sperando, ovviamente, che si sia trattato di un malore passeggero dovuto allo stress e al caldo torrido di Cincinnati, evidentemente da lui non sopportato.
Forza Yannik

Massimo Longo, giornalista e scrittore di sport e cultura