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    Home»Costume e società»Una prigione a cielo aperto
    Costume e società

    Una prigione a cielo aperto

    Cristina ObberBy Cristina Obber26/09/2014Updated:26/09/2014Nessun commento11 Mins Read
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    palestina
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    C’è un’altra Palestina che vive accanto alla striscia di Gaza, una Palestina di cui non si parla perché non viene bombardata, ma che subisce un annientamento quotidiano e costante che passa attraverso burocrazia, demolizioni, spruzzi di acqua fetida che non ti puoi toglierti di dosso e nuove strade e nuovi muri che ti tolgono spazi, aria e vita. Una Palestina dove la popolazione reagisce con un grande attivismo nonviolento ma altrettanto costante e quotidiano, perché per loro Esistere è Resistere.

    Ce lo racconta Rosangela Pesenti, da poco tornata da un viaggio in Cisgiordania, che ho incontrato al seminario “Femminismo e nonviolenza” ad Altradimora.

    – Com’è la Palestina?

    Per i palestinesi è una grande prigione a cielo aperto.

    L’unico ingresso per chi vuole andare un Palestina è l’aeroporto di Tel Aviv controllato dalla polizia israeliana. In Europa non conosciamo la storia della Palestina, sui nostri libri di scuola non è scritta la parola Nakba, la catastrofe del 1948 che vede la distruzione di città e villaggi e si perpetua ancora facendo dei palestinesi la più ampia popolazione di rifugiati al mondo.

    La Palestina è suddivisa in zone, e la tua vita cambia in base alla zona in cui vivi. Hai una carta d’identità di colore diverso, e questa tessera ti da’ e ti toglie diritti.

    Se hai la carta blu sei, limitatamente, fortunato, perché puoi abitare e lavorare a Gerusalemme, ma se vivi nella zona C, sotto occupazione militare, ti può essere tolta anche l’acqua.

    In tutta la Cisgiordania c’è una complicatissima situazione legislativa che rende la vita impossibile: è una strategia di aggressione silenziosa, che non finisce sui media internazionali.

    Per capire non basta guardare le carte topografiche, comunque solo l’area A (che rappresenta il 17% del territorio) è governata dall’Autorità Nazionale Palestinese. L’area B è amministrata dai palestinesi, ma controllata da polizia ed esercito israeliano, l’area C è sotto totale controllo israeliano.

    Per la legge internazionale la nazione occupante è tenuta a garantire alla popolazione occupata tutti i servizi essenziali e il rispetto dei diritti umani; per i bambini ad esempio, dovrebbero essere garantite scuola e assistenza sanitaria. Ma la legge lì non viene mai rispettata.

    – Fammi qualche esempio.

    Vengono attaccate le riserve di acqua e i palestinesi hanno 1 ora di acqua al giorno e spesso i serbatoi vengono avvelenati. Ci sono delle macchine simili a carri armati con un cannone che spara acqua fetida, sulle case, sui campi, sulle persone, non si riesce a ripulirsi da questo fetore per giorni, non c’è nemmeno acqua per potersi lavare il corpo.

    – Di che cosa vivono i palestinesi?

    Di tutti i lavori e le professioni: sono una popolazione molto attiva, ma le limitazioni di movimento attraverso un sistema complicato di permessi, checkpoint che ti costringono a lunghe code all’andata e ritorno dal lavoro, arresti ingiustificati, mirano all’impoverimento della popolazione palestinese.

    Un tempo c’erano industrie fiorenti ma adesso moltissime sono state forzatamente chiuse; ad Hebron, ad esempio, l’ economia è in ginocchio, in pochi anni hanno chiuso 1800 negozi.

    Non c’è bisogno di bombardare per questo. Se prendi la via principale e costruisci dei muri che ne blocchino tutti gli accessi, le città diventano città fantasma e tu hai solo costruito muri e ostruito strade e per questo nessuno ti sanziona.

    La nuova rete stradale, il cui accesso è vietato ai palestinesi, ha lo scopo di favorire gli insediamenti dei coloni isolando i villaggi palestinesi. A questo si aggiunge la costruzione del muro che isola i villaggi dalla propria stessa terra impedendo ai contadini di coltivarla.

    E’ un progetto di genocidio silenzioso, che crea una povertà sempre più capillare e insostenibile.

    Le terre, alle quali i palestinesi non hanno più accesso, vengono poi confiscate attraverso una legge che dichiara confiscabili i terreni non coltivati per tre anni. Ma in quella situazione, murati e senza strade, tre anni senza poter raggiungere e lavorare la propria terra passano in fretta e così la prepotenza di queste leggi truffa impoveriscono sempre di più i palestinesi perché i terreni e le case confiscate vengono vendute soltanto a coloni israeliani.

    Non si danno i permessi per costruire nuove case con infiniti cavilli anche se sei proprietario della terra; i palestinesi continuano a ricostruire le case demolite dall’esercito, sono instancabili in questo, sono un popolo laborioso, poi gli vengono demolite “legalmente” perché non rispettano i nuovi piani di edificazione. E’ paradossale.

    – Come stupirsi di una resistenza violenta?

    E’ passato lo stereotipo del palestinese terrorista, si parla solo di Hamas (dimenticando tra l’altro che per la legge internazionale un popolo aggredito ha il diritto di difendersi anche con le armi) mentre la realtà politica palestinese è molto più articolata.

    L’esperienza più interessante e meno conosciuta è quella dei Comitati Popolari Nonviolenti che hanno lo slogan: ESISTERE é RESISTERE.

    Esistere è porre tutta la propria capacità di inventiva contro tutte le azioni repressive dell’esercito israeliano e le aggressioni dei coloni.

    Sono stata nel villaggio di Bil’in dove la resistenza è quotidiana perché si tratta di resistere con manifestazioni pacifiche alle incursioni dell’esercito che distrugge le coltivazioni, impedisce di raggiungerle, arresta, perquisisce, dove una grande vittoria è costruire un asilo per i bambini.

    Il monumento in memoria di Bassem, un ragazzo ucciso durante un’incursione, è interamente coperto di bambe lacrimogene, che lì si trovano ovunque.

    Resistenza Nonviolenta significa anche fare ricorso alla Corte suprema di giustizia che qualche volta riconosce i diritti dei palestinesi.

    Si tratta di pratiche burocratiche lunghe e difficili sostenute anche da avvocati israeliani contrari alla politica del proprio governo. Ma spesso le sentenze non vengono applicate perchè i militari non sono tenuti a rispettarle e in nome della sicurezza impediscono ai contadini di raggiungere le proprie terre.

    Le donne sono molto presenti nella lotta nonviolenta.

    Nel villaggio di Nabi Saleh, dove abbiamo incontrato Manal con i suoi figli, il giardino antistante la casa è bruciato dai lacrimogeni e dalla mancanza d’acqua, al posto di piante e fiori sono appesi i gusci vuoti delle bombe lacrimogene in una quantità inimmaginabile.

    – Come crescono i bambini?

    I bambini che crescono nella paura. Molti vengono feriti.

    C’è una nuova strategia di arresto dei bambini anche più piccoli di 12 anni.

    Manal mi ha parlato di un ragazzino che è stato tenuto per 2 giorni in isolamento senza mangiare e in cambio della libertà gli è stata fatta firmare una carta scritta in ebraico, che lui non sa leggere. In base a questa carta è stato poi arrestato lo zio.

    Questo ragazzino si vergogna di se stesso e non esce più di casa per quella carta che ha firmato solo perché non ce la faceva più a stare rinchiuso e digiuno. E’ un peso troppo grande da sopportare.

    Così questi bambini vengono trasformati in delatori e caricati di un peso insopportabile.

    Oggi in Cisgiordania l’attacco è diretto ai bambini in modo particolare attraverso l’impedimento a frequentare la scuola, le minacce indiscriminate, la moltiplicazione delle difficoltà di vita per i loro genitori.

    Manal ci parla di tutto questo e chiede il diritto dei bambini alla serenità.

    Il villaggio viene attaccato ogni venerdì e quasi tutta la popolazione è stata ferita più o meno gravemente.

    “Abbiamo scelto la resistenza nonviolenta perchè tutti ci credono terroristi” spiega Manal “ma oggi il prezzo che paghiamo è altissimo perchè aggrediscono i bambini per spezzare la resistenza degli adulti. Arrivano con cani feroci per spaventare i bambini e l’utilizzo di gas ha avuto effetti deleteri su di loro: sono colpiti alla muscolatura, hanno dolori alla schiena, hanno una perdita importante di memoria, dimenticano tutto”.

    Grazie alla solidarietà internazionale alcuni ragazzi e ragazze possono andare in vacanza in altri luoghi per conoscere altre possibilità di vita. Per i genitori è importante che possano imparare com’è la normalità che loro non hanno mai conosciuto, una vita senza la paura costante di essere aggrediti. Dove non devi murare le finestre delle scuole per difenderli dalle pallottole come nel campo profughi di Aida a Betlemme.

    Attraversare la Palestina significa toccare con mano costanti e gravissime violazioni dei diritti umani. Senza parlare dei crimini di guerra nei confronti della popolazione di Gaza.

    Nel villaggio di At-Tuwani sulle colline a sud di Hebron abbiamo incontrato i volontari internazionali di Operazione Colomba che sono presenti per monitorare la continua espansione illegale degli insediamenti israeliani protetti dall’esercito.

    Gli abitanti ci hanno raccontato della scuola che sono stati costretti a costruire illegalmente, continuamente distrutta e continuamente ricostruita. Qui i villaggi sono piccoli, e questa è l’unica scuola, i bambini dei villaggi vicini fanno anche quattro Km. per arrivare a frequentarla. Camminano accompagnati dall’esercito israeliano che deve proteggerli dagli assalti dei coloni, particolarmente aggressivi in questa zona, ma dato che i bambini hanno paura dei soldati (e con ragione) i soldati sono a loro volta controllati da ragazze e ragazzi di Operazione Colomba, di cui i bambini e le bambine si fidano. Le donne sono state fondamentali nella difesa della scuola e quest’anno sei ragazzi hanno fatto l’esame di maturità.

    Donne e uomini palestinesi vogliono che i loro figli e figlie pensino a giocare, studiare, vivere, ma intanto la vita è una continua lotta.

    A Betlemme abbiamo visitato l’Hogar Nino Dios, una casa per bambini disabili dove lavorano Don Mario Cornioli con alcune suore di origine argentina.

    La resistenza di Don Mario e della sua comunità si esprime anche celebrando la messa in un uliveto espropriato ogni venerdì per solidarietà con i palestinesi. Lo stesso giorno le suore recitano il rosario camminando lungo il muro su un angolo del quale è stata dipinta l’icona di una Madonna in lacrime circondata dal filo spinato.

    – Come vivono i coloni israeliani?

    Attraversando la Valle del Giordano abbiamo visto l’insediamento di Ma’leh Adumin costruito sulla terra rubata; è rigoglioso di vegetazione, con piscine, giardini e fontane mentre accanto i villaggi beduini non hanno né acqua né elettricità perché sono proibiti gli allacciamenti alle condutture.

    Viaggiando sulla strada principale i coloni possono svoltare nelle strade di sinistra per entrare nell’insediamento, mentre i palestinesi, per entrare nel loro villaggio, devono proseguire per chilometri e poi girare per tornare indietro e se trasgrediscono vengono fermati e devono pagare una multa.

    Al campo beduino di Al Alaja abbiamo visto la distruzione operata dall’esercito israeliano la settimana precedente. Ci raccontano che sono arrivati alle 5 del mattino e hanno fatto uscire tutti, non hanno permesso ai bambini nemmeno di prendere un giocattolo e hanno distrutto abitazioni, stalle, il forno per il pane, i bagni, la cisterna dell’acqua, hanno ucciso 150 agnelli. Chi ha cercato di fermarli mettendosi davanti al bulldozer è stato arrestato.

    Il campo sembra investito dal terremoto e sono costretti a vivere sotto tende di fortuna perché hanno il divieto di ricostruire.

    Sopra il campo passano i fili elettrici ma loro non possono avere elettricità.

    Devono fare 20 Km con il trattore per acquistare l’acqua da una ditta israeliana eppure basterebbe avere il permesso di scavare un pozzo. A 50 metri c’è l’acquedotto che serve l’insediamento di fronte e dove c’è una fiorente coltivazione intensiva di palme da dattero protetta da filo spinato ed esercito.

    Le coltivazioni israeliane mettono in pericolo l’ecosistema della valle, drenando un’enorme quantità di acqua dal fiume Giordano e abbassando il livello del Mar Morto.

    Israele dovrebbe avere delle sanzioni non solo per crimini umanitari ma andrebbe denunciata anche per il crimine della distruzione ambientale e architettonica. Dobbiamo boicottare tutti i prodotti israeliani.

    – Ma l’Onu non prende provvedimenti?

    Ci sono tantissime risoluzioni Onu contro Israele, che però agisce violando tutti gli accordi internazionali. Il problema è che gli accordi non sono accompagnate dalle sanzioni; le sanzioni economiche costringerebbero Israele a cambiare politica.

    Dovremmo rompere le complicità occidentali che sono tante e antiche: gli vendiamo armi, alta tecnologia, addestratori per la guerra, favoriamo il commercio dei prodotti coltivati sui campi sottratti ai palestinesi, accettiamo le informazioni deformate, diffondiamo falsità storiche.

    Senza la complicità dei paesi europei e degli USA Israele non potrebbe continuare la sua guerra.

    Nonostante la tragedia quotidiana i palestinesi che ho incontrato dicono: “Possono raderci al suolo le case, ci tolgono l’acqua, ci tolgono tutto, ma noi lottiamo per salvare la vita dei nostri bambini e delle nostre bambine”.

    I palestinesi rivendicano la propria dignità e la propria memoria.

    Vogliono che non si dimentichi che nel 1948 sono stati cacciati dai loro villaggi e deportati.

    Nel campo di Haida, sopra la porta del campo c’è una grande chiave che simboleggia tutte le chiavi delle case che hanno dovuto lasciare.

    Israele è la cattiva coscienza dell’Occidente.

    il diari

    Per informazioni dall’agenzia della Nazioni Unite per la Palestina: www.unrwa.org

    Per informazioni sulle campagne in corso per aiutare il popolo palestinese ad ottenere giustizia e soprattutto i Comitati Popolari Nonviolenti nella loro resistenza attiva potete visitare il sito www.assopacepalestina.org dove potete leggere anche la testimonianza di Meri Calvelli, cooperante italiana che è rimasta a Gaza durante l’attacco israeliano.

    Per una prima conoscenza della Palestina, Rosangela Pesenti consiglia la guida turistica: Palestina e Palestinesi, Alternative Tourism Group, 2011 (info@atg.ps; www.atg.ps)

    Per chi volesse leggereo di Pesenti del 2008 dalla Palestina: http://www.rosangelapesenti.it/index.php?option=com_content&view=article&id=57:giorni-di-palestina&catid=14&Itemid=16

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    Cristina Obber
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    Cristina Obber è nata a Bassano del Grappa il 9 novembre 1964. Iscritta all’ Ordine dei giornalisti, ha collaborato per cinque anni con un quotidiano vicentino. Nel 2008 ha pubblicato “Amiche e ortiche” con Baldini Castoldi Dalai, affresco dolce-amaro dell’amicizia al femminile. Nel 2012 ha pubblicato un libro sulla violenza sessuale, "Non lo faccio più" ed. Unicopli che ha dato vita ad un progetto scuole e al blog nonlofacciopiu.net. Nel 2013 ha pubblicato per Piemme editore il libro Siria mon amour, storia vera di una 16enne italo-siriana che si è ribellata ad un matrimonio combinato. Nel biennio 2009-2010 ha pubblicato con Attilio Fraccaro editore “Primi baci” e “Balilla e piccole italiane”, due libri in cui ha raccolto ricordi del primo bacio e ricordi del mondo della scuola nella prima metà del novecento. Collabora con Dol’s, il sito delle donne on line da svariati anni. Si occupa di tematiche legate ai diritti. Il 25 novembre 2011, giornata internazionale contro la violenza sulla donna, esce il suo primo e-book dal titolo La ricompensa (edito da Emma books), che si apre con una citazione di Lenny Bruce: La verità è ciò che è, non ciò che dovrebbe essere. Il suo ultimo libro è ''L'altra parte di me’’, edito da Piemme, una storia d’amore tra adolescenti lesbiche.

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    Caterina Della Torre

    torre.caterinadella

    Redattora del sito internet www dols.it

    Donne pronte al dialogo, ai trattati, a scavalcare Donne pronte al dialogo, ai trattati, a scavalcare barriere e confini, ai cambiamenti, alla PACE.
Protagoniste di una sfida femminile secolare che nessuna guerra potrà negare. Nessun futuro potrà prescinderne.

https://www.dols.it/2025/06/09/donne-di-pace-e-di-guerra/
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La solitudine dei non amati, firmato e diretto dalla regista norvegese Lilja Ingolfsdottir, nella sua opera prima, con Oddgeir Thune, Kyrre Haugen Sydness, Helga Guren e Marte Magnusdotter Solem .
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