Viaggio nella genealogia femminile
“Se io voglio definirmi, sono obbligata anzitutto a dichiarare:
Sono una donna; questa verità costituisce il fondo
sul quale si ancorerà ogni altra affermazione”.
Simone de Beauvoir
Sono figlia dell’Italia degli anni Ottanta, l’Italia della Prima Repubblica, di “un partigiano come Presidente”, l’Italia del sodalizio Craxi-Berlusconi, della televisione pubblica contro quella privata. Ma sono anche figlia di quel lenzuolo di Italia del nord, la Pianura Padana raccontata da Luigi Ghirri attraverso le sue fotografie, il deserto della solitudine narrato da Gianni Celati ed è qui che sono cresciuta. La Pianura è una donna depositaria di storie; eppure, proprio in questa terra che mi ha dato i natali, non c’era spazio per la voce e il corpo delle donne. A loro era stato negato il diritto di esprimersi e con esso la libertà di pensare e di esistere. Relegate a figure sullo sfondo, ogni desiderio si piegava fino a diventare un sussurro soffocato, ogni bisogno si dissolveva nell’abitudine alla rinuncia.
Anche tra le mura domestiche lo sguardo maschile imponeva la sua legge, ridefinendo l’esistenza delle donne in funzione di un ruolo prestabilito. Come potevano costruire il proprio posto nel mondo, se nessuno insegnava loro a riconoscersi? Finivano per vedersi attraverso lo sguardo degli uomini, accettando quel riflesso come unico possibile. E così, generazione dopo generazione, tramandavano alle figlie l’arte della sottomissione.
Nel tempo, come loro, mi ero abituata a percepire me stessa solamente come un’ombra che non aveva il diritto di occupare spazio né di farsi sentire. Ho imparato, mio malgrado, ad abitare un silenzio che mi era stato imposto, un silenzio che mi ha insegnato a cancellare ogni contorno della mia identità. Anche quando ho trovato gli strumenti prima e la forza dopo per riappropriarmi della mia voce, mi sono resa conto che a mancarmi erano proprio le parole.
Non avevo mai le parole giuste per definirmi, non sapevo come descrivermi, come raccontarmi. Ogni tentativo sembrava frammentario, incompleto, come se le parole non riuscissero a contenere tutto ciò che ero. Finché, un giorno, ho scoperto che avrei potuto scriverle. Nello spazio circoscritto di una pagina, la scrittura poteva comunicare ciò che è direttamente incomunicabile, rendere dicibile l’indicibile, tradurre in parole l’inesplorato e l’ignoto femminile.
Ho impiegato anni a diventare la donna che sono, a scoprire che la solitudine femminile, cui mi avevano abituata, poteva essere il punto di partenza per la costruzione di un io che fosse solo mio. Nel gesto della scrittura che si è fatta traduzione, mi sono avvicinata, nel tempo, al lavoro di tante scrittrici, studiose, sociologhe, pedagogiste, politiche, che, a loro volta, hanno seguito il filo invisibile di una tensione antica, un’esigenza radicata nella storia dell’umanità: sentire l’urgenza della scrittura per raccogliere i segni lasciati da chi non ha mai avuto voce, da chi non ha scritto di sé, da chi non ha avuto gli strumenti per lottare, creare. Ma anche sulle tracce di chi quella voce è riuscita a trovarla, di chi ha combattuto in prima linea per restituire parola a chi ne era stata privata.
Mentre le donne della mia vita mi insegnavano a sopravvivere nel ciclone della dominazione maschile, a essere remissiva, silenziosa, a soffocare il mio io, non lontano dalle nostre campagne, a Milano, altre donne sperimentavano e insegnavano l’autocoscienza femminile. Si riunivano per nominare sé stesse, per darsi nuove parole, per liberarsi da quelle imposte. Nei circoli, nelle case, nelle aule universitarie, nei luoghi di lavoro, si intrecciavano pensieri e lotte, si discuteva di libertà, di desiderio, di corpi e di diritti. Idee e fatti che sono stati definiti con la parola femminismo che può essere tradotta in genealogia.
Negli anni ho visto prendere forma, fuori e dentro di me, una genealogia di donne, un venire al mondo consapevole, radicato nel riconoscimento della propria origine femminile. Donne che, attraverso il racconto di sé, hanno intrapreso un percorso di autocoscienza e autoformazione, di decostruzione e ricostruzione del proprio io, donne che si sono messe a nudo per conoscersi e riconoscersi, per liberare la propria singolarità, la propria percezione dell’io nel mondo, opponendosi a qualsiasi preconcetto e costrutto sociale radicato nella dominazione maschile.
Nel solco della mia personalissima genealogia, mi raggiunge, chiara e cristallina, la voce di Virginia Woolf: “Se guarderemo in faccia il fatto – perché è un fatto – che non c’è neanche un braccio al quale appoggiarci ma che dobbiamo camminare da sole e dobbiamo entrare in rapporto con il mondo della realtà e non soltanto con il mondo degli uomini e delle donne, allora si presenterà l’opportunità, e quella poetessa morta, che era la sorella di Shakespeare, riprenderà quel corpo che tante volte ha dovuto abbandonare.
Prendendo vita dalla vita di tutte le sconosciute che l’avevano preceduta, come suo fratello aveva fatto prima di lei, lei nascerà. Ma che lei possa nascere senza quella preparazione, senza quello sforzo da parte nostra, senza la precisa convinzione che una volta rinata le sarà possibile vivere e scrivere la sua poesia, è una cosa che davvero non possiamo aspettarci perché sarebbe impossibile. Ma io sono convinta che lei verrà, se lavoreremo per lei, e che lavorare così, anche se in povertà e nell’oscurità, vale certamente la pena”. E dall’urgenza di creare una continuità tra le generazioni di donne, di costruire, appunto, quella genealogia di cui sopra, è viva in me la parola di Annie Ernaux che, attraverso il femminismo intersezionale, continua a portare avanti una doppia battaglia di genere e di classe: “considero un dovere prendere una posizione.
Anche se posso sbagliarmi, voglio testimoniare. Il mio sguardo si volge verso il mondo sociale e verso le donne, due direzioni, due dolori, che corrispondono alla mia biografia: ho sperimentato il disprezzo sociale e da ragazza mi sono scontrata con il dominio maschile”. Accanto alla parola di Ernaux, ritorna, a più riprese, quella di Hélène Cixous e la sua visione circa l’immissione della donna nel mondo attraverso la lingua e la parola scritta; non posso escludere dalla mia genealogia, le parole incendiarie di Judith Butler che, ridefinendo il concetto di genere e mettendo in discussione l’idea stessa di identità fissa e naturale, ha aperto spazi di possibilità per sovvertire l’ordine imposto dalla dominazione maschile, di Lea Melandri con il suo lavoro sulla scrittura d’esperienza, della scrittrice Margaret Atwood che, nel libro Il canto di Penelope, riscrive la storia di Penelope, alternando il suo racconto personale al canto corale delle ancelle e rielaborando i connotati delle protagoniste femminili per portare a galla il loro sostrato emotivo personale (e collettivo): il risultato è un quadro differente da quello che la storia ci ha insegnato.
Ci sono altre voci che compongono questa mia genealogia femminile e che fanno parte della mia formazione, libri sui quali amo tornare per rileggerne alcune parti come se stessi cercando qualcosa dentro di me. Penso ai diari di Sylvia Plath, a quelli di Susan Sontag, a Le parole per dirlo di Marie Cardinal, a certi racconti di Alice Munro, alle riflessioni di Anaïs Nin, ai testi più autobiografici di Colette e ad alcuni libri di Marguerite Duras.
Tra le voci della mia formazione e di quella di molte donne, che ne ha illuminato la vita e la coscienza di tante, c’è Simone de Beauvoir con Il secondo sesso. Antesignana delle attiviste della seconda metà del Novecento ed oltre, Simone de Beauvoir ha anche anticipato la ricerca femminista e gli studi di genere universitari. Studi di genere che, nella mia memoria, affondano nella lettura del volume Storie di donne. Autobiografie al femminile e narrazione identitaria, nato una ventina d’anni fa (e in continuo aggiornamento) dalla ricerca della Facoltà di Scienze della formazione dell’università di Firenze con il sostegno dell’amministrazione comunale. E ricordo, sempre negli stessi anni, un convegno dal titolo (emblematico) “Scritture femminili e Storia (sec. XIX-XX)”, organizzato dal Dipartimento di discipline storiche, dal Dottorato in studi di genere e dal Polo delle scienze umane e sociali dell’Università di Napoli “Federico II”, insieme alla Società napoletana di storia patria.
Illuminare la genealogia delle donne significa addentrarsi nella complessità della scrittura femminile, immergersi in una lingua comune e comunitaria, lavorare per renderla trasmissibile. Significa costruire uno spazio in cui le donne possano pensarsi come soggetto ed esistere senza le limitazioni imposte da uno sguardo altro. La strada da compiere è ancora lunga.
Nonostante le lotte per l’emancipazione e le conquiste ottenute, in molte parti del mondo i diritti delle donne non sono ancora riconosciuti come diritti umani. Uscire dall’invisibilità, riacquistare la propria voce, combattere i troppi silenzi che ancora oggi oscurano la violenza fisica e psicologica sulle donne, è un compito che appartiene a tutte. Perché quella “sorella” che Virginia Woolf immaginava potrà rinascere solo se continueremo a lavorare per lei.
