TUTTO IN UN GIORNO

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TUTTO IN UN GIORNO

di Marisa Ayroldi

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Tutto in un giorno, opera prima del regista e attore argentino Juan Diego Botto è un bel  film ambientato in una Spagna contemporanea, in cui il regista racconta tre storie destinate ad intrecciarsi e dove il normale, banale quotidiano è sezionato per rappresentare come un accadimento può arrivare e cambiarci tutta la vita.

Tre storie che si sviluppano nell’arco di un giorno, un tempo che – si capirà – può sembrare troppo lungo o troppo corto, ma tutte destinate a trovare un epilogo nella mattina successiva. 

 La bravura degli interpreti e la bella fotografia aiutano a capire perché il film è candidato a 5 Premi Goya 2023,  il più importante riconoscimento cinematografico spagnolo.

Juan Diego Botto sceglie di puntare la cinepresa verso i margini, intendimento confermato dal più evocativo titolo originale del film “En los márgenes”. 

Come il titolo stesso preannuncia, dunque,  il tema ruota intorno alla realtà durissima e scomoda di tutte quelle persone non abbienti che lottano per sopravvivere e ricorda temi e ambientazioni già trattati nei film di Ken Loach, regista inglese noto – per chi ne conosce la filmografia – per il carattere di denuncia, verso la società borghese-capitalista che opprime e sfrutta i più deboli. 

La macchina da presa alterna  immagini  volutamente  mosse  di gente e personaggi in movimento a inquadrature dove si indugia sui volti dei protagonisti, sulle loro espressioni per restituirci il profondo delle loro sensazioni: sconforto, disperazione, solitudine. Persone comuni, concrete, che si scontrano con i problemi di ogni giorno.

Tutto in un giorno  vede come protagonisti Azucena, una commovente  Penelope Cruz (che del film è anche produttrice) che interpreta  una  madre di famiglia sotto sfratto, coraggiosa ma disperata che le prova tutte, nelle 24 ore, per non perdere la propria casa, nella quale vive con figlio e marito.

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Rafa, un avvocato attivista  tutto impegnato nella salvaguardia dei diritti civili ma incapace di conciliare lavoro e vita privata. Si trova alle prese con un caso di custodia, in cui una ragazza araba rischia di vedersi togliere la figlia dai servizi sociali e crede di dover fare di tutto, nelle 24 ore, per impedirlo.

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Teodora, un’anziana madre  in pena per il proprio figlio – Herman –  che ha perso i soldi di famiglia in un investimento poco oculato, con cui cerca disperatamente di riprendere i contatti nelle 24 ore che precedono il suo suicidio .

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Non meno importanti i personaggi di Helena,  moglie di Rafa,  impiegata dei servizi sociali e alle prese con una difficile gravidanza. Lei sente sempre più l’importanza di una effettiva vicinanza del suo uomo nel mentre  ne misura le ripetute latitanze che, se pur motivale  dal suo lavoro e  dalla motivazione sociale,  le appaiono  ingiustificabili e decide –  coraggiosamente – di  troncare il rapporto “ sfrattandolo”  e scegliendo la solitudine piuttosto che un costante vuoto da riempire.

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Raúl giovane figlioccio di RAFA,  che esibisce il cinismo tipico di un adolescente apparentemente privo di valori e materialista, seguendo – seppur riluttante –  le peripezie di Rafa nell’arco di una giornata scopre, per la prima volta, il mondo dei diseredati e  ricuce il rapporto con il patrigno. 

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L’impostazione del racconto che sembra creare a tratti il predominio di una storia sull’altra in  realtà  riconduce a più fili invisibili che le tengono unite, fili che si intrecciano e  si riallineano. Scena dopo scena il film mette in evidenza il dramma della precarietà, dei  diritti negati e dell’esclusione sociale ma è anche una storia che racconta della solitudine  dopo la rottura dei rapporti familiari e sociali e della difficile possibilità di ritrovare  solidarietà, resilienza e  coraggio. 

Il film trasmette una sensazione  di  crescente   inquietudine con  i personaggi  che  inseguono una possibile soluzione ai loro problemi  in una affannosa corsa contro il tempo  oppure  si bloccano e rifiutano  qualsiasi  impegno e ricerca di aiuto. 

Il focus del film è incentrato sul dramma degli sfratti, raccontato  con le belle immagini della caparbia resistenza di Azucena, per finire  con la  dura denuncia, nei titoli di coda,  del fenomeno verificatosi in Spagna dove  si sono  registrati circa 41.000 sfratti ogni anno, più di 100 al giorno.

Pur senza dirlo il regista con quest’ultima denuncia  sembra volerci ricordare che dietro i dati economici che così spesso trovano spazio nelle cronache esiste un “effetto collaterale“  sempre meno  visibile e discusso: famiglie intere, donne, uomini, bambini  che sono gettati fuori dai loro appartamenti perché morosi e lasciati per strada, senza alcuna tutela.  

Le figure maschili, in questo film, trasmettono sensazioni di uomini smarriti, apparentemente senza valori e speranze ovvero chiusi e inconcludenti che mal si relazionano con il loro mondo del lavoro e con le loro compagne o madri.

Il marito di Azucena, Manuel (interpretato dallo stesso regista) operaio a giornata, è piegato in una sorta di indolente rassegnazione e  non ha più voglia e forza di battersi per conservare la casa, un uomo che è pronto alla fuga da se stesso e dalla sua famiglia;

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Rafa è un uomo che  crede di battersi per gli ultimi ma non si rende conto  che ha smarrito i suoi primi punti di riferimento al punto da essere  incapace di organizzare la sua, di vita, passando a tratti da paladino schierato a difesa degli ultimi a marito e padre tanto  assente ed inaffidabile da  perdere  il rispetto e l’amore della sua compagna;

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Herman, imprigionato dalla vergogna e dal senso di colpa conseguente al fallimento, si rifiuta di rispondere alle molteplici chiamate di sua madre fermo in un bozzolo di egoismo e di autocommiserazione  che  gli impedisce di ricambiare la  infinita generosità della madre. Lo capirà  solo   quando  non sentirà più il calore di quell’affetto impalpabile, che nel film  è  visivamente reso con  l’artificio  narrativo dei  messaggi  via telefono, e sarà troppo tardi.

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Per contro sono le donne  che conservano fino alla fine speranze, coraggio  e valori e alle quali  non rimane altro che cercare, in modi diversi, una via di uscita.

Insomma un film di denuncia in cui, per fortuna,  non tutti sono completamente  perdenti. 

Tutto in un giorno, un dramma corale che guarda al presente e al cinema di Paul Haggis e Ken Loach

Grazie a Rafa  e all’insperato aiuto offertogli dal figlioccio Raúl, la  giovane madre senza volto, indirizzo e dignità sociale, riavrà la sua bambina e il giovane Raúl, così spudoratamente materialista, prende coscienza che esistono valori diversi dal denaro,  che sono i veri legami tra  donne e uomini  e  anche tra  figli e patrigni.  

L’associazione a protezione degli sfrattati, solidale con Azucena, nonostante le pessimistiche previsioni,  non sarà un inutile e inconcludente ritrovo di sfortunati ma  l’ultima trincea al vuoto sociale prodotto dalle difficoltà economiche e si scontrerà con la polizia, per contrastare lo sfratto di Azucena, dimostrando con la forza delle immagini che la  vicinanza  visiva e fisica  delle persone  può essere la migliore e più forte riaffermazione  dei  valori di solidarietà e umanità.

Eppure… si esce dal cinema con l’amaro in bocca, una spiacevole sensazione di disagio e il desiderio di tornare a casa e riappropriarsi  della propria “comfort zone”.

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