Irene Salvatori, Non è vero che non siamo stati felici, Bollati Boringhieri, collana Varianti, 2019.
Irene Salvatori (Forte dei Marmi, 1978) si è laureata a Pisa in Storia Contemporanea, ha studiato alcuni anni a Cracovia e ha vissuto a Berlino, e di recente si è trasferita nella Loira.
Traduce dal tedesco e dal polacco. Scrive poesie. Questo è il suo primo romanzo.
Il romanzo di Irene Salvatori è più che autobiografico. Ė intimo. L’autrice lo ha scritto in forma di una lettera-diario alla madre, Valeria, prematuramente scomparsa quando Irene era venticinquenne.
La prima pagina si apre con i versi di Franco Fortini (da Non è vero), che danno anche il titolo al libro:
Non è vero che non siamo stati felici.
Lo sei stato ogni volta
che un occhio fissava deciso
a negare o ad imprendere.
Questa poesia è stata per Irene una sorta di totem, una fotografia di sua madre, che amava questi versi tanto da averli incorniciati e appesi nella sua camera.
“Questi anni senza di te sono stati un percorso ostinato dentro quel bosco, finché ne sono uscita, ma perché qualcuno mi ha dato una mano, altrimenti non avrei mai trovato la forza di scriverti come sto facendo adesso”. “Invece riesco a farlo perché ho fatto la traversata dell’oceano di me dentro il Nautilus”. L’immagine del sottomarino è la metafora della lunga e dolorosa esplorazione di sé, compiuta, alla stregua di un viaggio negli abissi, sotto la guida di un terapeuta che indossa i panni del Capitano Nemo.
Il giorno in cui Irene prende la “direzione sbagliata” nel bosco è il giorno in cui sua madre muore. Da quel momento, il tempo di Irene scorre su un binario parallelo a quello degli altri, a quello cioè della presunta normalità che chi vive un grave lutto riconosce come preclusa a se stesso.
Cinque anni dopo la scomparsa della madre, Irene decide di uscire dal suo lutto, o almeno da quella parte del lutto che le impedisce di vivere, di con-vivere con la sofferenza, con l’assenza, con il ricordo, in quello spazio temporale che lei chiama “le vasche del dolore”. Affronta gli abissi e al termine del viaggio racconta alla madre quello che è stata la sua vita dopo la loro drammatica separazione, il tempo che l’autrice chiama il dopo, il “senza-di-te”. Irene ha conservato e utilizzato alcune vecchie agende materne, riempiendo le pagine di scrittura come a colmare un vuoto nel tempo e nello spazio. Come per risarcire la madre scomparsa della perduta vita familiare avvenuta dopo la sua morte.
È una scrittura dolorosa che racconta, senza risolverli (volutamente), i quesiti sull’amore nelle sue diverse declinazioni: amore filiale da madre a figli e viceversa, amore di coppia, amore verso i cani, considerati e vissuti alla stregua di persone, tanto da attribuire loro acuti pensieri sugli umani.
Il legame di coppia che forse incute paura, tanto da allontanare da sé una relazione serena, quasi per punirsi di un senso di colpa, ma il lettore questo non lo sa, si limita a provare empaticamente il dispiacere della sfumata occasione di felicità perduta. C’è poi la delusione rabbiosa di un rapporto “sbagliato”, quello che tuttavia ha generato tre figli, amatissimi e a loro modo solidi.
Ci sono, tra i protagonisti, le voci gemelle che risuonano nella testa dell’autrice, le due amiche Mimì (la voce razionale) e Midori (la voce emotiva) ispirate ai due personaggi omonimi del cartoon giapponese della fine degli anni sessanta.
Il linguaggio di Irene è molte cose insieme: è schietto, spontaneo, colto ma non incline all’affettazione, e alcune righe rammentano versi dei cantautori italiani, come la descrizione della figlia maggiore… “la grande è Gauguin, è sicura di sé, è coraggiosa, ma si lascia guidare, si fida e parla tutte le lingue del mondo”.
È il diario di una expat, infine. Una expat alla ricerca di una sua Heimat, che non è l’Italia e non è un Paese estero, bensì un luogo con odori, colori e atmosfere, un luogo sostitutivo della madre e del nido in cui ci sente protetti.