Il mio corpo

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Maternità e seduzione: sono i due princîpi su cui s’è fatta la storia della donna, della sua identità sessuale, del suo corpo

Maternità e seduzione: sono i due princîpi su cui s’è fatta la storia della donna, della sua identità sessuale, del suo corpo.
Mamma: fino agli anni ’60 voleva dire donna. Donna è grembo e seno, femminilità tutto ciò che occorre a fare di una ragazza una buona mamma, fianchi generosi, ventre accogliente. Anche la seduzione richiama maternità: il corpo è procace, le crinoline tutto vestono tranne il petto, imbellettato, a bella posta per dire al maschio ” Guardami, sono io la madre migliore per generare la tua discendenza” (dove migliore significava la più sana). Salute è bellezza appunto, tempi in cui la magrezza era intesa come malanno, inadeguatezza al compito per cui Dio ci ha messo in terra (fare figli).
È durata moltissimo questa stagione: la storia ci rimanda icone distanti tra loro nei secoli ma tutte così simili (generose di rotondità che oggi ci sembrano goffe e ci fanno sorridere), la venere di Milo e avanti negli anni quella di Botticelli, la dama de Le déjeuner sur l’herbe, le Maja di Goya, e poi il cinema, le dive anni ’40, e oltre, fino a Marilyn. Il rapporto delle donne con il proprio corpo non era semplice, certo, ma perlomeno il fine a cui si ambiva era chiaro e comune a tutte: apparire all’uomo succulente — aggettivo un po’ greve, ma di questo in definitiva si trattava: mostrare di fuori quanto dentro di noi tutto funzionasse come a Dio piaceva, piene di salute, di ormoni che ci disegnassero seni e fianchi sodi, tali da suggerire a chi volessimo sedurre l’idea ancestrale della femminilità (cioè a dire, nell’uomo, l’immagine primordiale della madre, del grembo che per primo li ha accolti e del seno che per primo li ha nutriti).

E poi sono arrivati gli anni ’60. E il quadro s’è fatto molto più complesso (e badate, uso questa parola, complesso, non a caso).
La liberalizzazione sessuale ha abbattuto muri, rovesciato tabù e quant’altro, ma ha pure detto a tutte qualcosa di pericolosamente democratico, e cioè qualcosa del tipo ” Beh, ora siete libere, fate un po’ quello che vi pare”. E n’è venuta fuori una gran confusione (la libertà non è merce facile da maneggiare per che non ne ha dimestichezza). Siamo donne, non mamme, — si gridava per le strade, — non ci chiuderete in casa, in cucina, a tirare su i vostri figli, a ingrassare…
Ragazze arrabbiate (figlie di madri con la emme maiuscola, che hanno fatto la guerra e figlie a loro volta di madri che oggi fatichiamo solo a immaginare, madri assolute, da dipinto, scarmigliate in abito lungo e grembiule, tre e più pargoli in braccio), ecco, queste ragazze, nipoti di vere e proprie matrone levatrici, hanno infine fatto il grande salto e libere e orgogliose hanno preso a dire, urlare, cose come Io sono mia! E soprattutto — ricorderete — cose come ”Il corpo è mio e me lo gestisco io!’
E come, di grazia? In che modo avevano intenzione di gestirlo, questo corpo, queste giovani liberate? Seguendo quale misterioso libricino d’istruzioni?

Naturalmente — è storia nota — quei princîpi (culturali e familiari) di cui giuravano sprezzanti l’eterno diniego erano radicati in loro più di quanto ne avessero coscienza, nel DNA, profondamente, e al tempo opportuno sarebbero rispuntati fuori per rimetterle carreggiata. In un decennio le gonne si sarebbero allungate, la rabbia smorzata e lo specchio avrebbe reso a queste (oramai ex) ragazze l’immagine di un corpo liberato, sì, ma già maturo per un primo bilancio. Un corpo che allo specchio ora (e chi l’avrebbe mai detto?) regge in braccio un bambino. E adesso? A lei, a mia figlia, che cosa gli dico? Cosa le insegno? Sii libera come lo sono stata io? Il corpo è tuo e gestiscitelo tu? Ma a me poi questa libertà, questa autogestione, ha fatto bene o male? Voglio dire, mi piace davvero questo corpo che ora vedo?
Noi un po’ lo sappiamo come è andata: che le figlie di queste ex ragazze arrabbiate sono cresciute, bene o male non sta a noi dirlo, ma le abbiamo viste truccate di nero pece, tatuate, portare anelli dove francamente ignoravamo fosse possibile portarli, ma pure in tailleur, compite, austere, ministre! Le figlie della democrazia sessuale oggi sono diversissime tra loro, è un dato di fatto, però una cosa in comune se ci pensiamo bene ce l’hanno tutte quante (o quasi). Alla stragrande maggioranza di loro il proprio corpo non piace affatto.

Ma che cosa ha che non va questo accidenti di corpo? Che mai, mai in nessun caso ci piace e ci soddisfa (a tutte, indiscriminatamente, dalla pienotta sempre a dieta alla supermodella filiforme)?
Quando e perché è cominciata questa guerra che ogni donna oggi combatte contro la propria immagine?
Detesto essere melodrammatica e mi scuso se rispondendo a questa domanda potrò sembrarlo: ebbene, la lotta di ogni donna contro la sua immagine probabilmente c’è da sempre (quantomeno da che esistono gli specchi), ma solo da una quarantina d’anni possiamo dire con una certa sicurezza che questa guerra s’è fatta senza quartiere, e che difficilmente avrà mai fine.
Un tempo — vedete — era più semplice: il retaggio culturale (più o meno maschilista) ci indicava un unico modello (quello di madre) e la società e la nostra famiglia e il nostro uomo si aspettavano che come donne ci impegnassimo a onorarlo, quel modello. La crisi in quei tempi ci colpiva ove disattendessimo quelle aspettative, per cui finivamo per sentirci inadeguate, incapaci cioè di essere quello che loro (marito, genitori e comunità) desideravano che fossimo. Ma la rivoluzione sessuale ci ha messo in condizione di scegliercelo da sole il modello (non solo madre, ma quello che più ci piace — single, imprenditrice, artista o quant’altro) e a questo punto un eventuale fallimento diviene molto più frustrante perché ci scopre incapaci di essere quello che noi stesse (non loro) desideravamo essere. Tanto più che ben poche tra noi — in un calderone di infinite possibilità — hanno chiara l’idea di quale sia quel modello migliore, e se pure in giovinezza ne individuiamo qualcuno interessante da perseguire, beh, il più delle volte, crescendo, ci rendiamo conto che magari così interessante non era e lo sconforto è tanto più grande quanto più nitida la sensazione di aver buttato via del tempo prezioso (le rughe, allo specchio, a ricordacelo ogni giorno a venire).
Così più o meno, da mezzo secolo: fin dalla pubertà il nostro corpo proviamo a gestircelo da sole, ma siamo bambine, e senza saperlo seguiamo ciò che velatamente dopo il boom economico ci va indicando la grande comune dello stile (una comune gestita non certo da bambine, ma da persone più mature, d’esperienza, donne che, inutile negarlo, la sanno molto lunga — Liliane Bettencourt, Esteé Lauder, Anne Wintour, per citarne alcune). Una comune, soprattutto, che non può prescindere dal tornaconto economico (troppo in là si è andati negli investimenti e troppi i posti di lavoro in ballo).
E in questa babele noi cresciamo e mutiamo, e muta ciò che vogliamo (pretendiamo) dal nostro corpo: dal body building anno ’80 passiamo al vibromassaggio e alla ginnastica passiva anno ’90, poi la boxe, e poi lo yoga e il pilates, e le alghe e le creme e le pillole, o drasticamente il digiuno o due dita in gola.
È piuttosto sconfortante, perché di solito siamo già avanti con gli anni quando prendiamo coscienza che bene o male sarà sempre interesse della comunità economica che le donne continuino a non piacersi, che continuino a investire nelle loro insicurezze (quello della bellezza è uno dei pochissimi settori immuni ad ogni crisi globale— grottescamente nutrendosi di tantissime piccole crisi individuali).
E allora capita che, pur figlie del 68, alcune tra noi rimpiangano i tempi prima della liberazione, quando quello che ci preoccupava era essere (e apparire) nulla più che come buone e sane madri.
È — l’avrete inteso — un argomento assai complesso. Rieccola, infine, quella parola che ho detto di non aver usato a caso. In psicanalisi, si dice di un gruppo di idee, immaginazioni o tendenze prevalenti stabilmente nell’attività psichica di un soggetto: complesso. Idee, immaginazioni e tendenze che si insinuano nella nostra testa fino a ossessionarci: complessi, chiodi fissi, per dirla facile.
Curioso notare come in tempi passati, più barbari forse — tempi maschilisti in cui donna era madre e maternità seduzione — in quei tempi i complessi più argomentati fossero profondamente morali, talora struggenti, complessi edipici, complessi di colpa, e come oggi di contro, nei tempi moderni, del progresso e della civiltà, il complesso di cui più si discuta sia il complesso del sedere grosso.
Chiediamocelo, quando sullo scaffale scegliamo meccanicamente i cereali allo 0,1% di grassi, è davvero meno maschilista questa società per cui ci siamo battute cinquant’anni fa? Io ora sono davvero mia?

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Profilo Autore

Aura Fede

Aura Fede. Siciliana ma ora abita a Treviso. A Padova ha fatto gli studi pre-universitari e universitari. Docente nel corso post-laurea (per psicologi e specialisti ginecologi) di psicoprofilassi ostetrica dell’Università di Padova E' sessuologa clinica (altre a consulente) e Formatore dell'istituto Internazionale di Sessuologia di Firenze diretto dalla prof. Roberta Giommi. Ha frequentato il corso di Mindfulness presso l’AISPA di Milano, autrice di lavori scientifici su vari argomenti legati alla specializzazione. Coautore di volumi sul benessere delle donne e sul benessere dei ragazzi.

1 commento

  1. Caterina Della Torre

    Ritengo che sia importante riflettere e ritornare sulle conquiste e le battaglie fatte perchè in questo momento nonostante i vari movimenti le donne sembrano arretrare e non prendersi la scena…ed il loro corpo è ancora area di sconfitte.
    Le donne non si piacciono e quello che fanno è per piacere all’uomo…uomo che poi le usa e le uccide quando no può possederle.
    Donne che arretrano . Non mi piace…

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