MISS

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Lei nel mio quartiere è ormai un’icona. Nessuno conosce il suo vero nome o cognome ma, a pensarci bene, sarebbe persino superfluo. Stamane la incontro all’ufficio postale in preda all’inquietudine.

di Ombretta Brondino

«Che succede, Miss?» sussurro al suo orecchio con tono partecipe.
«Ho scordato la mia pochette di raso blu sul tavolo della cucina. Mi sento fuori posto senza la mia pochette». Afferma lei guardando, vaga, di fronte a sé.
«Vada pure a prenderla, Miss. La coda è lunga» suggerisco io «posso tenerle il posto, ho tempo da vendere, io».
«Lei ha tempo?» mi chiede perplessa. «È una rarità il tempo di qualcuno ormai. Più nessuno ha tempo. Voi tutti siete sempre così indaffarati a correre dietro a chissà cosa» afferma con la dolcezza triste e patetica di un Pierrot.
«Sì. Io ho tempo Miss. Ho perso il lavoro e ho fin troppo tempo».
Senza dire nulla mi porge il bigliettino con il numero 87 e si avvia verso l’uscita a piccoli passi su quei piccoli piedi. Tentenna nei pressi della porta a vetri che indica l’uscita ma poi, con piglio asciutto e severo, come colta da un turbine di vento, si srotola fuori scomparendo alla mia vista.
La mattina Miss si mescola tra la folla delle massaie che fanno la spesa al mercato rionale dopo aver sciolto i loro pettegoli crocicchi davanti ai cancelli della scuola elementare. Si aggira leggiadra tra le bancarelle di frutta e verdura e osserva con l’incanto di una bambina tutto quanto la circonda. Non compra mai nulla ad eccezione di una rosa bianca. Sempre e solo una, allo stesso banco. Miss emana un candore innocente che la rende leggiadra, un essere etereo che volteggia a suo agio tra bancarelle odoranti e variopinte. Sono in molti a osservarla con occhi compassionevoli e, allo stesso tempo, incuriositi, ma solo negli sguardi di certe donne si percepisce una forma di venerazione e rispetto che nascono dal coraggio puro e sfacciato di questa donna nell’indossare quegli abiti. Sono abiti che tutte, in segreto, serbano nel guardaroba incantato dei sogni. La mise Anni Venti è il suo pezzo forte; un monumento alla stravaganza raffinata e un po’ rétro.
Osservare il suo arrivo in piazza è un po’come assistere a un datato spettacolo d’avanguardia. Con il suo cappellino di paillettes blu e un paio di guanti di raso color cremisi, Miss svetta tra le pieghe laccate e composte di fresco delle casalinghe che fanno acquisti chiassosi e scomposti. Il suo incedere aggraziato e silenzioso pare avvolgerla in una bolla che avanza al rallentatore e il suo sorriso, sempre sull’orlo dell’esplosione, non accenna a modificarsi illuminando ogni cosa attorno di una luce accecante. Ai piedi un raro paio di charleston vintage tinta corallo; un tubino di raso blu con coda strisciante fascia le sue forme intatte e un boa di struzzo dello stesso colore dei guanti le attorciglia collo e spalle. Eccola Miss in tutto lo splendore del suo rituale mattiniero. Estate o inverno, sempre lo stesso.
Lei non vive solo di abiti improbabili ma anche di citazioni letterarie. Ricordo una fredda mattina di febbraio di quest’anno in cui si aggirava tra la baraonda del mercato reiterando sottovoce una celebre frase di Anaïs Nin: «La vita normale non mi interessa. Cerco solo i momenti più intensi. Sono alla ricerca del meraviglioso».
Ignaro della provenienza di quella citazione mi feci svelare a chi appartenesse e poi, alla mia domanda diretta «Dove lo si trova il meraviglioso, Miss?» lei rispose prontamente in un modo che mi spiazzò e, lo confesso, mi fece sognare come un bambino
«Qui. Nel color tabacco dei tuoi occhi». Disse con grazia incantevole.
Le sue bizzarrie riempiono pagine ancora poco scritte di una follia umana molto più diffusa di quanto non si immagini. In lei fluiscono e confluiscono libero pensiero e azione casta. C’è qualcosa nel suo essere che la rende inafferrabile, quindi affascinante.
Ora sono all’ufficio postale che la aspetto, come promesso. Attendo un quarto d’ora, poi mezz’ora e dopo quaranta minuti, benché il mio tempo sia effettivamente vacuo, decido di andarmene. Mi dirigo verso il mercato con la speranza di trovarla lì. Mi addentro nella folla compita di una mattinata feriale come tante, ma ben presto mi accorgo in modo palpabile della sua assenza; nessuno sguardo malizioso intorno a me e tantomeno raduni sparsi qua e là di donne adoranti e pettegole. Nessuna traccia della sua eccentrica scia di soavità o della sua pochette di raso blu.
La mia giornata trascorre lenta ma inesorabile con il pensiero fisso su di lei. Chissà perché non è tornata indietro. Verso sera, dopo aver salutato i miei compari di un non-tempo amaramente affrancato dai doveri lavorativi, mi avvio per rientrare a casa. Infilo la chiave nella toppa del portone e scorgo con la coda dell’occhio una pantera nera con tuta, guanti e casco da motociclista rigorosamente color della notte che sta sopraggiungendo. Mi giro, la osservo nell’atto di sistemarsi il casco sulla testa, noto che anche lei si accorge della mia presenza: blocca ogni movimento. Poi sfila il casco appena inforcato, libera il volto dai suoi lunghi e folti capelli sciolti e mi viene incontro con fare sicuro. Non appena di fronte a me la riconosco. È lei. È Miss. Gli occhi sono i suoi, il sorriso anche, ma dov’è tutto il resto?
La donna innanzi a me in questo istante è l’altra lei, in versione oscura, quella che non avevo ancora incontrato. La leggenda metropolitana di quartiere narra che ogni sera, intorno all’ora consueta dei pasti, questa donna sfrecci per le vie della città in sella alla sua motocicletta e ne raggiunga gli angoli più bui e abbandonati per nascondersi. Si dice che, celata nell’oscurità più profonda, ella catturi con lucida fermezza, dotata del solo obbiettivo di una fotocamera professionale, gli istanti più cruciali e peccaminosi delle vite altrui: fedifraghi, truffatori finanziari e societari, figli disperati e senza controllo, diventano prede inconsapevoli del suo teleobiettivo digitale.
Non so cosa dirle, come rivolgermi a lei, come chiamarla. Insomma, per me lei è Miss, ma in questo momento di confusione non lo è.
Inaspettatamente mi porge la mano, allarga il suo sorriso migliore e si presenta «Piacere. Io sono Ada».
«Piacere mio, Guido». Non riesco a dire altro, sono come inebetito e, finché cerco il modo meno invadente possibile per formulare la domanda che mi frulla in mente da stamattina, lei, strizzandomi l’occhio.
«Guido non ci pensare. La ricerca è il mio motore».
Stamattina cercavi una pochette di raso blu e ora? Ora cosa cerchi? Avrei voluto chiederle ma nulla. Non riesco a spiccicare parola se non un semplice «Allora domattina io verrò a cercare te, o lei. O voi. Se vuoi potremmo sederci a parlare».
«Domani» sussurra lei montando in sella alla sua moto. E di nuovo se ne va. Prova inconfutabile di una mente doppia che deterge il mondo. Anche il mio, se possibile. Ti prego.
Miss, Ada, una maschera che stasera svela a me stesso i miei ricordi più antichi e domani chissà. Ci siederemo a parlare. Le racconterò di quando ero bambino e, travestendomi da cowboy, anche io cercavo di salvare il mondo. E quando mi sentivo solo mi trasformavo in un pesce, nuotavo insieme a una moltitudine di altri pesci in acque limpide e inondate di sole. Le dirò che ho capito perché non è tornata stamattina. Chi è alla ricerca non torna mai indietro.

Domani incontrerò lei, meravigliosa avanguardia di una della variegate possibilità dell’essere. E forse incontrerò anche me.

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