Hidden Figures

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La leggerezza di un feel good movie per temi importanti come il razzismo, la forza della genialità e la discriminazione di genere.

di Dirce Scarpello

Uscito nelle sale italiane non a caso l’8 marzo e basato su una storia vera, racconta di tre afroamericane che riescono a imporsi per le loro capacità geniali, ma anche per la loro straordinaria perseveranza, all’interno del team scientifico che riuscirà a mandare l’uomo nello spazio negli anni ‘60.
Portato con molta ironia, tra scoperte casuali e intuizioni geniali, descrive l’America della segregazione razziale e, in qualche misura, mettendola in ridicolo, rinnova il messaggio antirazzista, nonché quello contro la discriminazione di genere, così necessario anche oggi.
La prima cosa che mi ha colpita è stata la felice traduzione dal titolo originale: Hidden Figures. In inglese figures vuol dire sia “cifre” che “persone”, quindi letteralmente sarebbe cifre( o persone) nascoste, riferito il primo alla attività di Katherine Johnson, la vera protagonista del film, che si rivela determinante nella missione spaziale per la sua geniale capacità di calcolo e di verifica delle teorie sulle traiettorie, il secondo riferito alle persone che con il loro lavoro contribuiscono in maniera determinante alla riuscita di missioni o eventi memorabili ma che rimangono nell’ombra e non escono, nonostante ciò, mai fuori dall’anonimato. Nella traduzione italiana, però, quel Il diritto di contare, si carica però, a mio avviso, in maniera più diretta di un intento rivendicativo per gli afroamericani – ancora oggetto in Virginia, ove si svolge il film, di segregazione razziale – e per le donne- matematica geniale una, ingegneri le altre due, Dorothy Vaughn e Mary Jackson, ma pur sempre donne, nell’America dei borghesi Happy days.
In un anno in cui l’Oscar per il miglior film è andato a Moonlight con il maggior numero di attori di colore premiati di sempre – c’è chi dice anche per effetto delle polemiche sulla mancata candidatura di attori neri nel 2016- le tre attrici protagoniste del cast Taraji P. Henson (Katherine Johnson), Octavia Spencer (Dorothy Vaughn) e Janelle Monáe(Mary Jackson) sono brillanti, intense ma sempre leggere, non contravvenendo mai al registro misurato della sceneggiatura, sulla cui aderenza al libro da cui è tratta mi riprometto di indagare. Tuttavia, hanno il piglio delle protagoniste e fa un po’ effetto vedere un Kevin Costner – nel ruolo del responsabile del Space Task Group della NASA- quasi ridotto a spalla, funzionale alle scene più significative e al contempo divertenti del film- come quella, che si ripete per buona parte del film, in cui la Johnson è costretta a fare un chilometro a piedi per raggiungere la toilette riservata alle donne di colore- o a quelle più emozionanti – come quelle in cui l’intera riuscita della missione è affidata alla capacità della geniale matematica di verificare che i calcoli della traiettoria di rientro siano effettivamente corretti, mentre la navicella sta atterrando.

Sbiaditi e scialbi, più che realmente antipatici, appaiono gli altri due ricercatori bianchi del team, interpretati da attori di fama e rispetto come Kirsten Dunst ( la ragazza di Spiderman) e Jim Parsons (Sheldon Cooper di The Big Bang Theory), mentre il ragazzone astronauta che effettivamente effettuerà la missione (interpretato da Glen Powell), pare affidarsi ai calcoli della Johnson più per fideistica superstizione che per reale apprezzamento delle sue strabilianti capacità.
Anche il tema della genialità, dopo un incipit con la piccola Johnson che cresce nel suo mondo di numeri e che poteva in astratto far temere una storia sofferta alla A Beautiful Mind, è trattato con leggerezza , degradando a mero dato di fatto che tuttavia costituisce, più che altro come talento, il vero motore della storia, il vero stimolo per quell’ American Dream qui incarnato nella sua parte più pura, scevro dalla componente più strettamente materialistica del benessere economico che rimane una conquista sullo sfondo. L’altro grosso tema, quello dell’emancipazione femminile, qui non è ancora femminismo, rivendicazione e contrapposizione di genere ma è allo stadio della presa di coscienza delle proprie capacità, di domanda di ‘perché no, perché non potrei farlo’? , di una sorta di resilienza ante litteram, sebbene non indotta da eventi tragici ma dal quotidiano giogo della sottovalutazione delle capacità della donna da un lato e del razzismo dall’altro.
L’inconsistenza della descrizione delle dinamiche familiari – uomini che cedono quasi senza una piega alle ambizioni di carriera delle loro donne, figli che si crescono da soli e tipiche case borghesi americane degli anni sessanta che si puliscono e si mantengono in ordine da sé di tutto punto- è probabilmente voluta poiché il focus non era di certo quello ma i macrofenomeni sociali già detti.
Interessante è anche la parte più prettamente storica, sia nella narrazione della guerra fredda USA URSS che si combatteva anche sul campo del primato nelle missioni spaziali, sia per quanto riguarda la storia del progresso tecnologico. Il primo grandissimo computer IBM, alla installazione e all’avvio del quale assistiamo nel corso del film, è il precursore di tutta la tecnologia nella quale siamo oggi immersi: ci volle tutta la caparbietà, la genialità e anche l’irriverenza della Dorothy Vaughn – che in pratica ne aveva fatta una questione personale di sfida uomo(o meglio donna) –macchina – per venirne a capo.
Una bella storia, non certo il film dell’anno ma che lascia addosso un senso profondo di ottimismo, autostima in quanto donne e la voglia di credere che anche per noi, adesso, ci possa essere un Yes, we can.

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