FILIZ ŞAYBAK la comandante curda

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La manifestazione del 2a settembre 2016 a Roma, a sostegno del popolo curdo, ha risvegliato  molte coscienze.
Un’occasione, per ridare voce, oggi, a una complessa storia, attraverso il vissuto di un personaggio femminile emblematico.

FILIZ ŞAYBAK
nome di battaglia Comandante AVESTA HARUN
(1980 – 2016)
testo e foto di Andrea Zennaro per Toponomastica femminile

Filiz Şaybak (pronuncia: Filis Shaibak) nasce nel 1980 a Van, un piccolo paese nel Kurdistan turco. Il suo carattere è forte e indomabile come quello della gente a cui appartiene.

I Curdi sono un antico popolo di origine indoeuropea. Hanno sempre vissuto liberi e autonomi. Ben arroccati sulle loro montagne, neanche Alessandro Magno riuscì a sottometterli. Vivevano quasi esclusivamente di pastorizia (l’agricoltura possibile in alta montagna è assai poca) e praticavano una religione semipoliteista simile allo Zoroastrismo persiano. La loro lingua era ed è tuttora diversissima da tutte le altre. Fu l’Impero Ottomano ad imporre loro la fede musulmana.

Filiz cresce in una famiglia numerosa e piena di affetto. Gode di un amore inseparabile con il fratello Tekin e con la sorella Nurcan. Vive sulle montagne che conosce bene, considera gli alberi e i sassi come esseri viventi con tanto di nomi e sentimenti, ama e rispetta la Natura, di cui fin da bambina ha imparato a capire e accettare i cicli. Crescendo va a scuola a Mezri, la città più vicina a Van, il suo paese natale. Ama imparare ma le dispiace che a scuola non possa parlare il curdo né cantare i canti e danzare i balli tradizionali del suo popolo.

Dopo la I Guerra Mondiale l’Impero Ottomano si sgretolò in fretta. La Società delle Nazioni divise la zona in due protettorati, un regno e una repubblica: Mesopotamia e Palestina alla Gran Bretagna, Siria e Libano alla Francia, Persia e Turchia autonome. Ai Curdi nulla. Il Kurdistan fu diviso in quattro parti, una turca, una siriana, una iraniana (ex persiana) e una irachena (ex mesopotamica). In modi e tempi diversi, tutti e quattro i nuovi stati hanno sempre represso le spinte identitarie e indipendentiste curde. La repressione peggiore è stata quella turca: vietato parlare curdo nei villaggi, vietato celebrare il Newroz (il tradizionale capodanno curdo che ricorre il 21 marzo, sempre festeggiato con fuochi e danze), insomma vietato non aderire al nuovo grande progetto di Turchia moderna e occidentale imposto da Kemal Atatürk.

Filiz è dispiaciuta: è una bambina, non riesce a capire perché il maestro picchi i compagni di classe che si lasciano sfuggire una parola in curdo, non capisce chi sono davvero quelli che a scuola chiamano “terroristi”. Tekin, il fratello maggiore, si arrabbia, vuole la libertà. L’altro fratello, il primogenito, ha studiato ed è diventato imam, lui è per la pace ma si rende conto che così non è giusto.

Nel 1984 il PKK (il partito dei lavoratori curdi, capeggiato da Abdullah Öcalan), dichiarato illegale e considerato un’organizzazione terroristica, entra in clandestinità e inizia la lotta armata contro lo stato turco. È un partito comunista e aperto alle donne: lottano in quanto Curdi contro la Turchia, in quanto lavoratori contro il Capitalismo e in quanto donne contro il patriarcato.

Sui monti del Qandil Filiz vede uomini che portano lunghi fucili e le sorridono. Filiz ne ha simpatia, non paura. In città Tekin scopre il movimento studentesco clandestino legato al PKK e vi entra portando con sé le sorelle, ormai cresciute. Filiz e Nurcan convincono (o costringono) la madre a togliere il velo che le copre il capo e la dignità, la donna non deve più essere sottomessa. Le ingiustizie aumentano di continuo. Un giorno vede uomini e donne uccisi e trascinati per le strade dall’esercito turco. Finché Filiz decide di lasciare la scuola: lo fa a malincuore, ma non può continuare a studiare la lingua e le leggi di chi uccide i suoi fratelli, non vuole andare a lavorare per uno Stato che le è nemico. Sì, nemico.

Öcalan viene arrestato e torturato dalla Turchia. La sua foto con i baffoni neri fa il giro del mondo rapidamente. Il PKK prosegue la lotta armata costruendo intanto su quelle montagne una società radicalmente paritaria e democratica. Interi villaggi curdi sono bombardati dall’esercito turco, i bambini vengono chiamati terroristi dai media statali, interi villaggi evacuati sono costretti a lunghe e umilianti peregrinazioni tra montagne e deserto.

In casa Şaybak non tardano ad arrivare le prime comparse della polizia turca. Da allora in poi fermi arresti perquisizioni e interrogatori saranno all’ordine del giorno. Finché Tekin viene arrestato. Terrorismo è l’accusa, dodici anni la condanna. Resta in carcere due anni, quando esce per un’amnistia ha le idee chiare.

La comunità internazionale tace. Tutto deve passare sotto silenzio. La Turchia si deve difendere dai terroristi e al diavolo i diritti umani.

Un giorno Tekin sparisce. È in montagna, con i compagni. In braccio un fucile, nome di battaglia Harun Van, Harun come un compagno morto prima di lui e Van come il paese in cui è nato. Combatte per dare ai futuri bambini curdi l’infanzia normale e serena che lui non ha avuto.

L’ONU e l’Europa intervengono per un cessate il fuoco. Non è una vera e propria tregua, la Turchia ha diritto a difendersi dai terroristi, dicono. Ma terroristi sono i bambini dei villaggi bombardati? E cessate il fuoco sia.

Come con Che Guevara in Bolivia, qualcuno fa la spia. La Turchia formalmente mantiene la tregua, in realtà rompe il cessate il fuoco e continua la guerriglia in montagna. Tekin è circondato dagli elicotteri. È il solo a rimanere vivo, lotta strenuamente, solo contro tutti. Ha mitragliatrici da ogni lato e bombe dal cielo. L’ultima pallottola la tiene per sé.

Finita la breve tregua il genocidio dei Curdi ricomincia. Non che fosse mai stato davvero sospeso…

Un mese dopo la morte di Tekin, l’adorato fratello, è Filiz a scomparire. Prende il fucile del fratello e continua la sua strada. Nome di battaglia Avesta Harun, Avesta come il nome dei testi sacri zoroastriani, la fede del Kurdistan prima dell’imposizione dell’Islam, e Harun come il suo amato fratello maggiore.

In Turchia il governo passa nelle mani di Erdogan, un autoritario islamista, e la guerra contro il Kurdistan si fa sempre più feroce. Il mondo intero è concentrato nel combattere il terrorismo islamico, che niente ha a che spartire con la lotta dei Curdi, ma i Curdi sono ugualmente nel mirino. La Siria di Assad, l’Iraq di Barzani e Hussein e l’Iran di Ahmadinejad non sono certo più morbidi.

Avesta diventa in breve tempo la comandante di un gruppo speciale. Uomini e donne nel PKK sono totalmente pari, la gerarchia è data solo dalla bravura sul campo e dalla cultura politica, che ci si scambia nelle costanti riunioni di lettura e autoformazione. È una comandante per niente severa, molto attenta al lato umano e ai bisogni di chi la segue, tenera con chi è in difficoltà o ha paura e dura con chi vuole mettere i piedi in testa ai più deboli.

È il 2011, tempo di rivoluzioni e sommovimenti in tutto il Medio Oriente. L’Iraq è occupato dalla NATO: si è allentata la repressione sui Curdi che hanno favorito la cacciata di Saddam Hussein. Nella Siria di Bashar Al Assad scoppia la guerra civile e i Curdi ne approfittano. Nel Rojava (il Kurdistan siriano) si pratica il confederalismo democratico, la radicale democrazia dal basso propugnata dal PKK. Viene messa in atto un’equa distribuzione delle (poche) ricchezze, l’emancipazione della donna e il rispetto dell’ambiente.

Oltre all’YPG (gruppi armati di autodifesa del popolo curdo) si forma l’HPG (gruppi di difesa delle donne), una serie di gruppi militari speciali per le donne, per il Kurdistan libero e per la parità sessuale. Avesta è a capo di uno di questi gruppi. Sotto la sua guida il PKK ottiene i suoi migliori risultati militari contro l’esercito turco, che ha buone armi ma non conosce quelle montagne indomabili.

Foraggiato dall’Occidente, compare un nuovo nemico. Si tratta del Daesh (a noi noto con il nome di ISIS), un esercito di “barbari che si reputano gli inviati di Dio” (parole di Avesta), bestie che del messaggio divino non hanno capito assolutamente nulla. Sono militarmente impreparati e sanno usare solo armi molto lunghe (mortai, lanciagranate e autobombe): la forza di questi banditi sta nella paura che incutono con la loro ferocia e nelle migliaia di scudi umani di cui fanno uso, ma davanti a un combattimento serio scappano. Si autoproclamano “Califfato” o “Stato islamico”. Sono acerrimi nemici di una civiltà dignitosa, in particolare della democrazia e delle donne, peggio ancora se libere ed emancipate. La NATO potrebbe far fuori il Daesh in tempi brevissimi e con uno sforzo bellico minimo, ma chi spara ai Curdi fa comodo alla Turchia di Erdogan. L’YPG da solo riesce a tener testa ai barbari, difendere Kobani e ricacciare il mostro oltre l’Eufrate.

Avesta sta contemplando la neve sui monti del Quandil a lei così familiari fin da piccina e leggendo un libro di Öcalan quando arrivano le urla di pessima notizia: “Il Daesh ha attaccato Mexmur!”

Mexmur, poco più che un campo profughi, è la località principale del Kurdistan iracheno, punto di arrivo di un lunghissimo esodo di Curdi cacciati dalla Turchia. Ora Mexmur non ha attività belliche ma solo civili e postazioni mediche, ma rimane un luogo simbolicamente importante per l’identità curda e per il confederalismo democratico che lì è applicato.

La squadra di Avesta è una delle prime a partire. I barbari del Daesh sparano qualche colpo poi salgono su un suv e scappano via. Eroici, non c’è che dire. E Mexmur è liberata in breve tempo. La stessa scena si ripete per i villaggi vicini.

I Curdi sembrano star vincendo. La situazione precipita quando l’esercito di Erdogan entra in Siria, disposto a tutto pur di fermarli. È il 2016. La Turchia sembra preferire le bestie del Daesh al confederalismo democratico del PKK. Secondo Ankara il vero terrorista è ancora una volta Öcalan, non il sedicente Califfo e i suoi uomini incappucciati.

Nell’ultimo villaggio da liberare YPG e HPG accerchiano il Daesh e vincono molto in fretta. Ma gli ultimi due colpi della barbarie colpiscono un braccio e un fianco di Avesta. Gli organi vitali non sono compromessi ma sta perdendo tanto, troppo sangue. Un altro comandante la carica di corsa su una jeep. Le mine intorno a Mexmur sono l’accoglienza irachena ai Curdi in fuga dalla Turchia, per non farli andare troppo in giro fuori dal campo: la jeep salta proprio su una di queste.

Altre città del Rojava prima in mano al Daesh sono liberate dall’YPG mentre la NATO copre le spalle ma non fa granché. In Turchia intanto continuano la guerra al terrorismo, ovvero bombardamenti su villaggi sui monti del Qandil.

Quando Avesta viene messa sulla seconda jeep ha già perso i sensi. Nella Mexmur liberata dove la aspettavano le cure mediche e i festeggiamenti per la vittoria non fa in tempo ad arrivarci.

Per intitolare strade o piazze a questa grande comandante partigiana è presto: bisognerà prima fare chiarezza su chi sono gli eroi e chi i terroristi. Intanto la foto con i suoi occhi del colore della divisa è affissa in tutti i villaggi del Kurdistan accanto a quella con i baffoni ormai bianchi di Abdullah Öcalan.

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