Arabia Saudita: vite sospese tra segregazione e tutela

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E’ evidente che l’inedita partecipazione femminile alle consultazioni amministrative del 2015 abbia destato non poco scalpore in un paese conservatore dove la misoginia è profondamente avvertita.

Una donna dallo sguardo intenso. Dal pesante niqab nero che ne cela i lineamenti spiccano occhi scuri, grandi e tristi, uno dei quali visibilmente contuso. Nulla trapela di lei. La sua storia personale è evanescente, così tristemente simile (pur nella diversità particolare) a mille altre, confusa nella nebbia che avvolge la quotidianità femminile saudita.

Un’immagine – simbolo della campagna contro la violenza indetta dalla King Khalid Charitable Foundation nel 2013 ma tuttora espressione del reale – accompagnata da un’eloquente didascalia: “Certe cose non possono essere nascoste”. Nobile intento quello dei discendenti di re Khalid (al potere dal 1975 al 1982), fondatori, nel 2001, di un’associazione volta al contrasto dei soprusi e all’assistenza dei soggetti più deboli, da sempre vittime di maltrattamenti e discriminazioni.
“Una donna su sei è oggetto di violenza fisica o psicologica riconducibile, nel 90% dei casi, ai familiari”, era stato il commento di Samar Fatany, giornalista impegnata nella difficile lotta per la parità di genere. “I dati contenuti in un rapporto stilato da esperti del Programma Nazionale per la Sicurezza Familiare rivelano che parecchie arabe sono assolutamente inconsapevoli dei propri diritti mentre gli uomini tendono costantemente a travisare gli insegnamenti religiosi”.
E’ evidente che l’inedita partecipazione femminile alle consultazioni amministrative del 2015 abbia destato non poco scalpore in un paese conservatore dove la misoginia è profondamente avvertita. Sebbene l’ambizioso progetto di riforma recentemente attuato dal governo per catapultare l’economia nazionale oltre i ristretti confini della produzione petrolifera abbia contribuito a incrementare le opportunità occupazionali, l’altra metà del cielo continua a essere largamente marginalizzata (alcune avvocatesse sono riuscite a esercitare la professione soltanto in seguito all deroga speciale concessa dai vertici istituzionali).
In tal senso, ogni esortazione all’indipendenza finanziaria appare quasi paradossale, in quanto nessun potenziale datore di lavoro si azzarderebbe ad assumere una candidata non autorizzata dal relativo tutore (il rischio di penalizzazione è tutt’altro che remoto).
Va rilevato inoltre che le donne sono obbligate a comparire in pubblico con un accompagnatore al fianco, non possono guidare automobili, praticare sport, sposarsi, richiedere l’emissione del passaporto, esre scarcerate o espatriare senza previo consenso di un congiunto o del marito (esclusivi referenti dello stato in caso di eventuali trasgressioni comportamentali). Ed è proprio l’intollerabile principio di tutela a precludere qualsiasi velleità emancipatoria in seno alla società saudita. “Le circostanze oggettive contribuiscono a favorire gli abusi“, ha chiarito Kristine Beckerle, analista presso la sede mediorientale di Human Rights Watch, istituzione umanitaria di risonanza globale.

L’intero sistema istituzionale si ispira infatti alla rigida ideologia wahabita, basata in sostanza sull’interpretazione integrale del Corano. Una versione forse intenzionalmente travisata (e pertanto alquanto controversa nel contesto musulmano) ma sicuramente funzionale al prestigio del potente clero sunnita locale, da cui la dinastia regnante trae da sempre linfa vitale (non a caso, d’altronde, il concetto legato alla custodia femminile risulta circoscritto alla sola penisola arabica).
Sul piano legale le saudite sono considerate eterne minorenni. Non possiedono alcuna autonomia decisionale, non sono libere di firmare neppure un semplice contratto di locazione“, ha ribadito l’attivista, “Ogni singolo aspetto dell’esistenza deve essere necessariamente sottoposto al vaglio di padri, fratelli, mariti o addirittura figli. Persino i trattamenti sanitari dipendono spesso dall’accondiscendenza dei cosiddetti guardiani“.

Ultimamente Riyad avrebbe riconosciuto alle cittadine del regno il diritto al possesso di una carta d’identità a prescindere dalla volontà maschile: l’ennesima mossa ingannevole finalizzata a suggerire una tolleranza pressochè inesistente, dal momento che il rilascio dell’ambito documento resta comunque vincolato alla presentazione, da parte delle interessate, di una family card riservata esclusivamente agli uomini (a eccezione di vedove e divorziate).
Qualsiasi parvenza di equità e progressismo emanata dalla monarchia sembra dunque destinata a impattare (consapevolmente) contro il granitico muro eretto sui pilastri millenari della storia.
Nulla insomma potrà davvero cambiare In Arabia Saudita. Almeno finchè le donne saranno costrette a subire l’ingerenza di aguzzini che – complice l’esasperazione della Sharìa – non abdicheranno mai al ruolo primario affidato loro dalla tradizione. Con la benedizione di Allah.

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Profilo Autore

Rita Cugola

Rita Cugola, milanese del ’59. Giornalista. Attualmente ha collaborato con il quotidiano “Il Fatto” e ha lavorato per il mensile “SpHera” (ora chiuso), occupandosi, rispettivamente, di mondo islamico (immigrazione, problematiche politiche e sociali) e di egittologia, ermetismo, filosofia. Collabora al momento attuale anche con Panorama e Alganews . Il suo blog http://ritacugola.blogspot.it/

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