Chi di stereotipo ferisce di stereotipo perisce

0

Non dirlo al mio capo una fiction Rai il perno della storia è il lavoro al femminile.Ma quanti stereotipi…

Non dirlo al mio capoPotrebbe sembrare uno sfottò, eppure non ho pensato a caso questo titolo. Di ritorno da una serata tra amici, ho trovato la tv accesa su una nuova fiction Rai, “Non dirlo al mio capo”. Trattasi di una storia al femminile nella quale la giovane protagonista (34 anni) è già vedova, con due figli, costretta a fingere di essere single pur di ottenere un lavoro come praticante avvocata. Ecco, a parte le ovvie implicazioni sentimentali col capo – uomo bello, ricco, affascinante e dal passato burrascoso, insomma, il solito tipo “sono stronzo ma tu puoi redimermi”– il perno della storia è il lavoro al femminile. Ed è questa la novità sulla quale regista e attori hanno insistito: il rendere in forma di commedia una realtà che le donne italiane sono costrette a subire sulla loro pelle, visto che il gender gap è particolarmente acuto nel mondo del lavoro e di aiuti concreti alle donne si parla in ogni campagna elettorale per poi fare poco o niente passato il momento del voto.

La protagonista, Vanessa Incontrada, è una donna che si è laureata col massimo dei voti per poi fare la mamma a tempo pieno per una decina d’anni, mantenuta dal ricco marito del quale scopriamo però una doppia vita con una giovane amante, insieme alla quale muore in un incidente stradale a Parigi, dove diceva di essere in viaggio di lavoro. I personaggi interpretati dalle altre donne della fiction sono molto stereotipati: c’è la collega quarantenne che aspira a divenire socia del capo (e sua amante) e che giudica lei troppo sciatta e per questo non pericolosa, c’è la figlia adolescente in rotta con la bella ed avvenente madre, c’è la segretaria dello studio, ragazzotta calabrese “emigrata” a Napoli che già si sente lontana dalle anguste regole del paesino e in preda alle tentazioni della grande città (lei è solidale con la mamma nascosta, perché tra inferiori si capiscono e si coprono), una madre di un figlio con la leucemia che ha messo al mondo un secondo bimbo per salvare il primo, le compagne perfide della scuola statale, quelle snob della scuola privata a cui la figlia non si è potuta iscrivere a causa della condizione di povertà recente, una divorziata vicina di casa che trama per lasciare l’ex marito senza un soldo ma nel frattempo si adatta e fa la baby sitter per la praticante, pur continuando a sorseggiare drink e sfoggiare abiti costosissimi mentre sbotta contro il marmocchio che le è affidato (c’è da scommettere che l’istinto materno germoglierà presto anche nella “finta cattiva” di turno).

Insomma, il lieto fine sarà assicurato e pure gli ascolti. La solidarietà tra donne, se non venisse sempre banalizzata, sarebbe una gran ricchezza da mostrare e una fonte di ispirazione non da poco, ma ad un prodotto medio non puoi chiedere approfondimenti di contenuti.

Laddove le istituzioni latitano, sopperisce l’ingegno oppure ci si sacrifica. Il termine caregiver, ad esempio, sta entrando nel nostro uso quotidiano come fosse una novità, quando sappiamo che il lavoro di cura è da sempre appannaggio (quasi) esclusivo delle donne.

Se penso ai famosi asili nido dove accedere è più difficile di un terno al lotto (alcuni politici di destra promettono sgravi per chi ha almeno tre figli, dimostrando che non hanno mai dato un’occhiata attenta alla crescita demografica italiana e che coloro che ne fanno ancora sono proprio quegli “stranieri” da cui vorrebbero liberarci), li associo al preoccupante dato che ci rivela l’altissima percentuale di mamme che lasciano o perdono il lavoro dopo la nascita del primo figlio.

Tornando alla fiction, la trovata particolare è una specie di mantra che Incontrada si ripete: “Posso essere mamma, posso essere Barbie presidente, posso essere Barbie sposa”, e se lo dice da sola, quando si vede riflessa negli specchi sottoforma di altre due donne che rappresentano dei suoi alter ego: una, appunto, è la bruna rampante con la fascia tricolore e il tailleur, l’altra è una bionda vestita come una meringa rosa di tulle che le sussurra parole dolci e la mette sulla buona strada, preda com’è dal senso di colpa per aver dovuto mentire al capo pur di essere assunta.

La praticante ce la farà: a risollevarsi, a barcamenarsi tra lavori di cucito notturni, crostate, baci della buonanotte e abiti sexy con unghie perfettamente smaltate. Sono decenni che ci fanno il lavaggio del cervello col multitasking, con quelle vignette in cui la donna è una specie di dea Kālī alla quale tutto riesce in contemporanea.

Gli stereotipi ci seppelliranno, se non lo hanno già fatto. E tolgono anche ossigeno alle relazioni interpersonali: non sono la prima a dirlo.

Nella mia serata a cena fuori, nemmeno troppo a sorpresa, gli argomenti trattati sono stati gli stessi di questa fiction. Quanta amarezza nel constatare che la precarietà lavorativa è divenuta pure una precarietà affettiva. Come diceva Samuele Bersani nella splendida canzone “Sicuro precariato” del 2006, si resta in prova anche nel privato. E i costi da pagare sono altissimi. A furia di interpretare il ruolo della donna forte, di quella che tiene le redini di tutto, si rischiano ansie immense e ci si infligge il torto peggiore, quello di accontentarsi. Al posto del grande amore, un amore risicato, frutto di una fretta esistenziale che ti fa terra bruciata intorno. La non stabilità economica non consente di fare grossi salti d’immaginazione; la crisi ha sparpagliato tanti e tante in giro per il mondo e ha creato la necessità di nuclei familiari d’adozione, composti da persone che nemmeno si sarebbero mai frequentate in situazioni normali. Parlo di normalità, ma nei corsi di psicologia ci vietavano l’uso di questo termine, di per sé senza un significato. Me ne rendo conto e però non posso smettere di credere che, ancora una volta, a pagare il prezzo più alto siano le donne. Dimostrando una capacità di adattamento e una flessibilità degna di una contorsionista, ho sentito parlare di veterinarie che fanno le badanti, di biologhe che pubblicizzano pannolini nei supermarket e poi della paura di credere ancora nelle unioni stabili, nello stigma sociale che ti si stampa addosso se per caso vuoi esser moglie e pure madre. La resa incondizionata di chi ha tradito le proprie aspirazioni, l’abbandono totale di quel che si voleva essere, non solo nel lavoro, genera malesseri profondi. Il confronto con le altre, manco a dirlo, sembra sempre pendere a loro favore: se sei una affermata nel lavoro, sei però arida nelle relazioni, se investi tutto nei sentimenti, le bollette non si pagheranno mica da sole e ci sarà l’amico/a di turno che te lo farà notare con precisione velenosa. Decidere, quando non sei tu ad avere il coltello dalla parte del manico, non è mai una scelta libera. E non c’è Barbie presidente che tenga!

CONDIVIDI

Profilo Autore

Daniela Astrea

Daniela Astrea - laureata in Filosofia con un tesi in Studi di genere, si occupa da anni di studi femministi in vari campi: cinema, letteratura, arte. Ha organizzato eventi, fatto parte di collettivi, lavorato in un’agenzia pubblicitaria come copywriter, pubblicato saggi e articoli sulla storia delle donne.

Lascia un commento


nove − = 5