Su i tacchi!

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L’incontro che la pone in un stato di ansia non giunge fortuito: sono giorni che Agnese medita sulle sorti di questo rendez-vous, prova e riprova le battute davanti allo specchio.

di Ombretta Brondino, Torino

Agnese osserva la sua immagine riflessa nello specchio. Ha un rossore diffuso su viso e collo che la rende bella e appassionata, con quell’aria tipica di chi è in procinto di affrontare una prova impegnativa. La camicetta bianca, leggermente aperta sul davanti lascia intravedere un colorito insolito falsamente camuffato da un elegante giro di perle buttato lì tutt’altro che a caso.

Eppure, l’incontro che la pone in un tale stato di ansia non giunge fortuito: sono giorni, infatti, che Agnese medita sulle sorti di questo rendez-vous, prova e riprova le battute davanti allo specchio che, ieratico ed accogliente nel suo silenzio, la ascolta, la osserva da vicino e sembra suggerirle da dietro la sua superficie riflettente “Ci sei Agnese. Hai la tua occasione. Fammi vedere di che pasta sei fatta!”.

Lo specchio è suo amico e nemico da quando era una ragazzina e lo interrogava non per testare le misure del suo seno in crescita o sperimentare i primi trucchi come facevano le sue amiche, bensì per confidarsi e parlargli come fosse un vero interlocutore. E facendolo, scrutava i propri occhi, le variegate espressioni del volto imparando a così a padroneggiare i propri espedienti seduttivi e persuasivi. Un’arte quella di Agnese che nasce da un’arcana insicurezza.
Eccola oggi pronta e scrupolosamente infilata nella sua divisa riservata agli incontri difficili: tailleur pantalone nero molto minimal, camicia di seta bianca, chignon morbido sulla nuca e l’immancabile cartellina che conferisce un’aria professionale e insieme fonda una solida base su cui poter appoggiare le mani altrimenti mosse da impeti involontari. Il suo aspetto vagamente nordico tradisce le origini mediterranee di questa donna definita bella da molti. Agnese trasuda classe e bon ton da ogni poro e, benché i quarant’anni l’abbiano resa finalmente conscia del proprio sex appeal e completamente edotta sulle regole basilari della seduzione, un alone di quella sfiducia antica le si ripresenta innanzi e non accenna ad abbandonarla. È in momenti come questo che Agnese fatica a dominare la sua parte bambina; la piccola fanciulla che è in lei si dimena ma la donna è risoluta nel non darle ascolto.
«Zitta!» le intima davanti allo specchio.
«Non è questo il momento. Oggi non posso permettermi le tue interferenze. Ti prego stai buona lì al tuo posto. Cerca di capire, io devo restare lucida». Agnese ha un dialogo aperto con se stessa sempre e ovunque, è il suo modo per rafforzarsi e acquisire padronanza di sé oltre che il suo calmante naturale.
L’uomo che Agnese si accinge ad affrontare è ed è stato la sua roccia per molta parte della sua vita ma da qualche tempo ormai non è più lo stesso. Agnese e sua sorella pedinano le sue mosse da mesi e mesi e spesso si sono ritrovate a dire «Io non so cosa stia capitando ma papà ha una faccia diversa, fatico riconoscerlo. L’hai visto stamattina?».
Entrambe avvertono una falla aprirsi in quella fiducia ciecamente riposta ma colei che fatica ad accettare l’eventualità di una delusione e di un crollo di tutti gli ideali a lui legati è Agnese. Solo lei. Gli accadimenti dell’ultimo periodo l’hanno posta di fronte al terribile sospetto che qualcosa d’indefinito abbia intaccato la sua integrità compromettendo la sua finora integerrima dirittura morale e la scomoda verità che Agnese ora scorge nello specchio davanti a sé è la paura, l’intimo timore di non trovarsi al cospetto di colui che da sempre conosce e riconosce come suo padre.

Il sole entra potente dalle finestre della Diamond Company e la donna si lascia pervadere da quella luce e quel calore che percepisce solo visivamente là fuori. Le manca il caldo nelle ossa, quella sensazione bruciante e rovente del primo sole sulla pelle dopo il freddo del lungo inverno, vorrebbe riaprire gli occhi e credere di aver sognato mentre il gelo del suo stesso sangue e dei condizionatori aziendali la riconducono alla dura realtà di quel momento. Si avvicina a quell’appuntamento come se quell’uomo come fosse la più alta cima da scalare. Per l’occasione indossa i tacchi di ordinanza, neri e a punta stretta: un trampolino dal quale lanciarsi, una spada tagliente con la quale difendersi. Agnese, nonostante l’indecisione e la perplessità del momento, ripete a stessa «Sono pronta a spiccare il volo, non soccomberò, mi farò valere!» un mantra il suo che le riecheggia dentro con una risoluta veemenza.
L’ascensore giunge al piano. È davanti alla porta dell’ufficio di lui. Bussa delicatamente ma con la fermezza della cognizione.
«Che i giochi abbiano inizio», ribadisce a se stessa nel suo incessante intimo fermento.
«Eccoti figliola» la accoglie lui con artefatta indifferenza benché intuisca confusamente le intenzioni della figlia. «Ciao papà» risponde lei ispezionando il suo volto, si accomoda sulla poltrona di fronte alla scrivania e, restando in perfetto silenzio, gli porge con sicurezza severa il registro blu relativo alle registrazioni contabili dell’ultimo anno.
«Ti mostro qualcosa di sgradevole papà. Io e Irene, collaborando con lo studio Mac per la revisione del bilancio annuale, non abbiamo potuto evitare di notare tutta questa serie di ammanchi», di nuovo lo guarda fisso negli occhi cercando di scovare in lui una minima debolezza o ansietà.
«E da quando tu e tua sorella vi occupate di finanze?» incalza lui sarcastico. «Paghiamo uno studio di commercialisti per questo tipo di lavoro», aggiunge alzando leggermente il tono di voce, «non vedo cosa centriate voi e cosa io possa dirti in questo momento. Analizzerò i conti. Me ne occuperò personalmente Agnese. Tu non devi preoccupartene ma soprattutto non te ne devi occupare!». Il suo tono diventa perentorio e improvvisamente aggressivo tanto che Agnese non riesce a nascondere una naturale reazione di collera a quel sottinteso e quanto mai inappropriato «Taci ora e torna a lavorare» che, dopo pochi istanti, la colpisce come il peggiore degli schiaffi. «Mi tratti ancora come fossi una bambina papà e, peggio ancora, priva di un cervello pensante». Prosegue lei «Il fatto papà non è cosa io debba o non debba fare» incalza Agnese senza parvenza alcuna di voler mollare l’osso «ma piuttosto cosa tu abbia o non abbia fatto in questo anno per ritrovarci difronte ad un simile disastro». Non soddisfatta, aggiunge «per non parlare poi di te, intendo come padre, come marito. Non ci sei più per nessuno da un bel pezzo ormai, tantomeno per la mamma».
La netta presa di posizione di lei e quelle parole pronunciate con una intensità e determinazione mai dimostrate prima d’ora, mutano le sorti di un dialogo apertosi in modo apparentemente pacifico provocando una reazione violenta e aggressiva del padre che, sentitosi attaccato e minato nel suo inviolabile territorio da una figlia solitamente mansueta e accondiscendente, non riesce ad arginare la sua reazione di rabbia «Tu ora la smetti Agnese! Mi stai mancando di rispetto ed io non lo tollero. Vattene da qui prima che io non risponda di me».
Lui, apparentemente incorruttibile e rigoroso, forte di un potere cresciuto di pari passo all’uso improprio del denaro sempre speso come irrinunciabile ricompensa, esplode in un brutale impeto rabbioso.
La piccola bambina dentro la grande donna argomenta con una foga composta e per questo ancora più persuasiva. Agnese è stremata e sbalordita più da se stessa e dall’autocontrollo della piccola dentro sé che dalla reazione paterna. In una frazione di secondo conferisce con lei per acquisire la forza che ancora le necessita «Brava piccola, mi hai sostenuta. Resisti ancora un po’».
Agnese suppone, presume e conclude senza scomporsi, con la potenza controllata della determinazione e la correttezza matura di chi osserva lo sfacelo materializzarsi di fronte ai propri occhi. Ha il coraggio di dire, sventa inganni e scorrettezze ormai innegabili, porta prove schiaccianti ma la sua sola e intima disperazione è legata alla certezza che una spiegazione e una motivazione non perverranno mai da lui.
«Perché papà? Io ti chiedo perché? La nostra azienda è sempre stata un gioiello come quelli che produce. Stai rovinando ogni cosa e io ti chiedo perché?»
«Non ho nulla da dire figlia. Non ti sei mai interessata di certe cose tu e soprattutto non ti sei mai rivolta a me in certi modi. Chiedo a te cosa succede piuttosto?».
«Sei imbarazzante papà. Cos’è che non sopporti davvero? L’essere stato scoperto o che a farlo sia stata io, proprio io la dolce, brava e remissiva Agnese?»
Alla domanda lui le volta le spalle e si chiude in un piombato silenzio. Agnese inizia a barcollare, tanta forza espressa tutta in una volta sola le costa energia vitale. Si alza dalla poltrona sui suoi tacchi alti con le ossa intaccate e doloranti ma integra e dignitosa mentre lui, dopo aver riordinato idee e aver abbozzato la più inutile delle strategie in un paio di minuti, concede il più impietoso degli spettacoli. Agisce con la furia di un cane a cui viene morsa la coda e addenta là dove un briciolo di autorità pare essergli ancora rimasta «Fuori di qui Agnese. Sei fuori, fuori da tutto intendo!»
La spoglia di ciò che possiede proprio come quel padre in quel di Assisi fece con il figlio Francesco. Padri delusi e amareggiati da se stessi che non sanno fronteggiare le loro stesse creature finalmente libere dai loro assurdi vincoli. La licenzia in tronco, le blocca la carta di credito aziendale e tutti i benefits finora concessi, la priva dell’auto e, come se non bastasse, le intima di abbandonare, di lì a dieci giorni, l’appartamento in cui abita in quanto proprietà di famiglia. Si disfa di lei, una figlia scomoda, avventata e inopportuna, e lo fa senza diritto di replica. La defenestra, la disconosce, la disereda, e si dimette dal suo ruolo paterno. Senza appello.
Agnese si è spinta pericolosamente oltre, ha indagato là dove non avrebbe mai dovuto, sventando frodi e inganni finanziari all’interno della Diamond dove il padre si è convertito a capofila di chissà quale losco traffico e per chissà quale assurdo interesse.
Viene estromessa da tutto per aver mostrato un ardire e un’audacia che mai si era concessa prima. Il suo passato di figlia e di donna le si palesa davanti in un istante e lo percepisce, tutto ad un tratto, colmo di catene e costrizioni imprigionanti tipiche di quelle famiglie in cui i ruoli di ciascuno sembrano creati per mantenere in piedi falsi e nauseabondi equilibri. Quindi, nonostante tutta la costernazione e lo sdegno per la follia di quel momento, per la prima volta in vita sua, sente avanzare un’intima e fugace sensazione di libertà a cui si abbandona con dolcezza ed eccitazione insieme. «Ho finalmente agito in modo autonomo ed attivo non limitandomi, come mia abitudine, ad attendere che il fervore del momento trovasse la fasulla pacificazione di una quiete apparente. Chissà da quanto tempo il mio inconscio cercava una tale liberazione, chissà in quali sogni notturni ho trovato l’energia necessaria per passare all’azione oggi».
«Devo uscire da qui» suda cercando di trovare un bandolo e ansima alla ricerca di un po’ d’aria fresca. Percepisce un dolore sordo al petto che pulsa come la più insopportabile delle ferite ed ora, asfissiata oltre ogni limite, quegli stessi tacchi che solo pochi istanti prima l’avevano sorretta nella sua marcia trionfale verso la verità diventano la sua salvezza
«Fuggi, fuggi lontano» intima la bambina sempre più matura dentro lei «Via, via Agnese e non voltarti indietro. Se tu ti girassi ora non vedresti altro che un mucchietto di frantumi pietrosi che, a stento, riconosceresti come parti costitutive di colui che ti ha generata. Vattene ora che sei in tempo!»
Si volta fugacemente verso quel volto stravolto dalla collera, ne intravede i contorni abbozzati, ne percepisce la voce ovattata ma non è più certa si tratti dello stesso essere vivente. Quei trampoli salvifici la conducono lontano da quella scena ignobile. Fuori finalmente fuori da quell’ufficio, da quell’edificio da quella vita fatta di vincoli verso un altrove fatto di altro, di nulla forse.
Lunghi mesi di dolore trascorrono in cui si susseguono fallimentari tentativi di dialogo e increscenti incontri in aule giudiziarie. La vita di una intera famiglia consegnata al volere di un giudice e alle testimonianze di parenti, colleghi, conoscenti inconsapevoli. Una vita che non torna, un passato che muore, un marito e un padre che abdicano pur di non rinunciare al potere. Una figlia orfana di tutto.
È passato un anno ed oggi, come allora, Agnese osserva la sua immagine riflessa nello specchio. Scorge un lieve rossore sulle sue gote ma questa volta si tratta di una tinta gioiosa, la sfumatura vivida e sfavillante di chi si sta ricostruendo. Si contempla nemmeno troppo timidamente nel suo abito blu cobalto e si sente finalmente appagata.
«Hai l’aria luminosa di una regina che amministra con cura il suo nuovo regno» le dice Giorgio, suo marito, in uno di quei rari istanti in cui gli uomini riescono davvero a vedere la propria donna ed esprimono con meravigliosa semplicità e amore un dato di fatto.
«Grazie amore. Hai dato fiato al mio sentire».
L’ANTRO è la sua nuova creazione, la sua salvezza, un micro mondo di moda, confidenze e stile che Agnese ha costruito dopo il disastro. Un prolungamento di sé in cui si riconosce a pieno e in cui ogni cosa dipende finalmente da lei.
È appena rientrata da Bologna dove si reca quattro volte l’anno per scegliere personalmente le collezioni. Ha mercanteggiato con abile maestria non solo sui prezzi ma sui pezzi da acquistare. «Originalità e raffinatezza sono alla base delle mie scelte» ripete spesso a Margot, la sua giovane assistente «scovare abiti e accessori singolari senza eccedere o sconfinare nella volgarità per me è un gioco da equilibrista. Il buon gusto Margot è una frazione di tempo, un punto di colore, un istante che va colto con il senso dell’intuizione e null’altro. Non devi ragionarci troppo» ripete con convinzione «osservi un abito, lo fotografi con quella memoria speciale che appartiene unicamente agli artisti e lo poni al di qua o al di là della linea di demarcazione interna. O è sì o è no».
Osservarla mentre si avvicina alla rastrelliera degli abiti è un’esperienza surreale che lei ama vivere in piena solitudine. La punta da lontano con aria di sfida, si passa una mano tra i capelli, come è solita fare nei momenti difficili, e parte come una guerriera aggrottando il suo terzo occhio posizionato tra le arcate sopraccigliari.
Un po’ come fece un anno prima, ma questa è tutta un’altra storia.

 

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