La spettatrice

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L’industria del cinema in genere una vera e propria fabbrica di disuguaglianze

La spettatrice

Ho la buona abitudine – risalente a prima che il web prendesse il sopravvento – di conservare i ritagli di giornali con gli articoli che più mi hanno incuriosita. Li metto da parte e poi li riprendo, anche parecchio tempo dopo. Mi era piaciuta moltissimo l’iniziativa di Geena Davis in merito al cinema e ai ruoli femminili, partita in sordina ma ben presto divenuta nota.

Ebbene, le sue ricerche sono proseguite e proprio recentemente ha potuto continuare a farsi paladina di una battaglia particolare tramite il suo Institute on Gender in Media (promosso dall’agenzia Onu Un Women) : l’attrice ha sottolineato come la mancanza di ruoli importanti al femminile crei e veicoli immagini stereotipate e sessiste delle donne e contribuisca a rendere Hollywood e l’industria del cinema in genere una vera e propria fabbrica di disuguaglianze.

Con lei si sono schierate apertamente molte colleghe. Basti pensare ai meravigliosi discorsi tenuti da Meryl Streep e da Patricia Arquette sulla condizione delle attrici e sul trattamento loro riservato, anche in termini economici, rispetto ai colleghi pure meno titolati; a Viola Davis che agli Emmy del settembre 2015 ha ritirato il suo premio e lanciato un accorato appello affinché le donne di colore abbiano la possibilità di recitare in ruoli da protagoniste.

Non solo. Davis ha raccolto dati inequivocabili sulla scarsissima presenza di registe e di come questa assenza privi il pubblico di una visuale differente della società e comporti la mancanza di aspirazioni positive e ampie per le ragazze che guardano film. Non siamo di fronte a una affermazione esagerata se si considera la forte influenza che il cinema ha avuto ed ha sulla costruzione di modelli culturali poi divenuti addirittura globalmente accettati e condivisi.

Noi, maschi e femmine, siamo anche quello che guardiamo. Non solo le letture e il linguaggio, ma anche le immagini sono capaci di formarci e di sedimentare in noi idee difficili poi da soppiantare.

Preoccupante è l’aumento di richieste per ruoli “muti” o poco elaborati per i quali servono e sono scritturate solo donne giovani, magrissime e che accettano di mostrarsi senza veli. Mortificante come risultato. Talmente tanto che c’è persino qualche attrice che non ha esitato a dire che la violenza sessuale di cui sono vittime le donne nel mondo ha tra le sue cause anche (soprattutto) l’immagine di soggetti deboli che il cinema propone senza tregua nei film.

E non solo in quelli americani, poiché l’istituto si occupa di studiare e monitorare i personaggi femminili di film e serie tv in tanti paesi europei e asiatici. Geena Davis non si stanca mai di ricordare che le pari opportunità si applicano anche nei film e che se cominceranno a nascere ruoli di politiche o scienziate, sicuramente più bambine nel mondo aspireranno a quel tipo di carriere.

Il messaggio sembra semplice, ma è vincente. Si dice spesso che è la stessa società contemporanea a spingere alla violenza, come fosse endemica e virale e non esistessero possibilità di porvi rimedio. Ci si interroga mai su cosa si può fare di concreto per ridimensionare certi fenomeni preoccupanti?

Sono partita dai film, i quali possono sembrare innocui passatempi con cui riempire i grigi pomeriggi autunnali. Ma c’è di più: siamo spettatrici e spettatori consapevoli? Quanti lungometraggi hanno donne in posizioni centrali e positive? In quanti esse sono figure subordinate e fatte oggetto di violenza psicologica o fisica? Queste stesse immagini prive di contorni definiti non le ritroviamo pure nelle pubblicità? Non occorre fare molti sforzi: basta una passeggiata in centro e una sbirciatina ai manifesti sei per tre per ritrarsi più che inorridite.  Si potrà obiettare che di donne la pubblicità (siano spot televisivi, banner su internet o manifesti sui muri) è piena, anzi, la loro presenza supera di gran lunga quella maschile. Certo. Ma a che prezzo? Se pure per sollecitare le donne a sottoporsi a controlli regolari per prevenire il cancro al seno si è scelta come testimonial Anna Tatangelo (Lilt) in una posa provocante, quale è il messaggio reale che passa?

Sono nati subito gruppi e petizioni per esprimere l’inadeguatezza della scelta e non si contano le segnalazioni allo IAP- Istituto Autodisciplina Pubblicitaria per spot ritenuti sessisti quando non proprio offensivi e violenti. Ricordo il triste esempio di un panno in microfibra con cui un ragazzo patinato diceva di aver pulito tutte le tracce di quello che, anche agli occhi più innocenti, pareva un efferato femminicidio compiuto in camera da letto.

E potrei continuare a lungo, citando pure molte campagne sociali, come quelle delle pubblicità progresso che, a fronte di un nobile intento, promuovevano e promuovono sempre e solo donne con occhi pesti, chiuse in gabbie come uccellini, con le calze strappate, il rossetto e il mascara colati giù per il viso. Resta tanto da fare, innanzitutto per cambiare alla base i messaggi da trasmettere, depurandoli – anche laddove non sembri – dai residui sessisti e violenti da cui sono inquinati. Modificare il linguaggio, le immagini, i ruoli  e con essi il patrimonio collettivo di modelli e di identificazioni consapevoli e non che ruotano attorno alla donne è un passo doveroso.

Non si tratta di attuare una nuova caccia alle streghe avente come bersagli generali pubblicitari e registi, quanto piuttosto di guardare tutto con occhi nuovi e meno assuefatti. E denunciare con fermezza quello che non ci è piaciuto né ci ha convinto.

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Profilo Autore

Daniela Astrea

Daniela Astrea - laureata in Filosofia con un tesi in Studi di genere, si occupa da anni di studi femministi in vari campi: cinema, letteratura, arte. Ha organizzato eventi, fatto parte di collettivi, lavorato in un’agenzia pubblicitaria come copywriter, pubblicato saggi e articoli sulla storia delle donne.

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