Contro la nostra volontà

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L’uso del ‘pene come arma’ ha permesso agli uomini di instaurare una sorta di ‘paura dello stupro’ che mette automaticamente la donna in condizione di inferiorità

In questo 25 novembre 2014, ancora una volta dedicato a ricordare le violenze, ininterrotte nel tempo, che le donne subiscono in ogni parte del mondo, siamo nostro malgrado a porci domande sui motivi psicologici, nonché sociologici e politici, che fanno si che tali crimini si perpetuino. Un elenco terribile: stupri, percosse, sfregi, induzione alla prostituzione, schiavitù, prigionie, lapidazioni, fustigazioni, punizioni di ogni sorta fino agli omicidi. Essi vengono perpetrati in tempo guerra come in tempo di pace perché per il genere femminile non c’è tregua che tenga. Sulla pelle delle donne non ci sono dunque armistizi possibili? Pare di no, nonostante che la mente femminile si sia interrogata nella letteratura, nella filosofia e nella politica sulla propria subordinazione . Nel corso dei secoli e fino ai giorni nostri, la violenza contro le donne appare ancora come uno dei fenomeni più incontrollabili delle nostre società. Da Eva in poi, le donne sono state interpreti, attrici, vittime agenti o passive, della storia e dell’immaginario. Ecco perché è impossibile non ricordare le lotte femministe degli anni 70, come il momento più alto di presa di coscienza delle masse femminili in tutto il mondo.

Da allora molti passi sono stati fatti; non si può disconoscere la forza dirompente di quel movimento e se oggi significativi cambiamenti, soprattutto per le donne delle società più avanzate, si verificano lo si deve proprio all’eredità che esso ha lasciato.

Il paradosso però è che tali cambiamenti generali non abbiano influito a sufficienza per rovesciare o modificare usi e costumi culturali di prevalenza maschili che ci portano ancora oggi a dover verificare lo stato di subalternità femminile rispetto al genere maschile. Come dire che è possibile abbattere il muro di Berlino ma non la muraglia che si frappone tra generi. Neanche la scienza sociale è riuscita a dare una spiegazione plausibile di tale fenomeno. Hanno cercato di darla molte studiose. Fra esse nel 1975, Susan Brownmiller, giornalista e scrittrice americana attraverso un saggio “Against our will” (contro la nostra volontà). Scritto dopo cinque anni di ricerche negli archivi dei tribunali e di giornali. Da questa ricerca venne fuori un quadro in cui si dimostrava come da sempre la violenza carnale, soprattutto nei confronti delle donne, sia stata usata come arma repressiva e come legge maschile complice del potere nel sottovalutare questi crimini. Infatti, dimostra l’autrice, “ l’uso del ‘pene come arma’ ha permesso agli uomini di instaurare una sorta di ‘paura dello stupro’ che mette automaticamente la donna in condizione di inferiorità e dà al maschio sensazioni di potere e di dominio. Per esempio in guerra, violentare le donne dei nemici non solo è tollerato, ma autorizzato e suggerito in quanto lo stupro, oltre a permettere ai soldati di sfogare sadismi repressi, colpisce gli avversari nella ‘proprietà’ allo stesso modo che il saccheggio e la distruzione”.

not our willIl saggio parte dal considerare come fin dai più umili inizi dell’ordine sociale basato su un primitivo sistema di forze di ritorsione – la lex talionis: occhio per occhio – in cui la donna non fu uguale di fronte alla legge. “Per un decreto anatomico – l’inevitabile conformazione del suo organo genitale – il maschio umano era un predatore naturale e la femmina umana fungeva da sua preda naturale. Non solo la femmina poteva essere soggetta a piacimento a una conquista fisica totalmente detestabile che non poteva essere ripagata con la stessa moneta – stupro contro stupro – ma per giunta le conseguenze di questo brutale scontro potevano essere la morte o il ferimento per non parlare della gravidanza e la nascita di un bambino a carico della madre”. Ma, fra i loro predatori, alcuni avrebbero potuto essere scelti come protettori. “Fu forse così che venne concluso il rischioso patto. La paura femminile di una stagione di caccia per gli stupratori, e non una naturale inclinazione per la monogamia, la maternità o l’amore, fu probabilmente l’unico fattore dell’originario soggiogamento della donna per opera dell’uomo, la più importante causa della sua storica dipendenza, del suo addomesticamento mediante un accoppiamento protettivo. Una volta che un maschio diventò   titolare di un particolare corpo femminile – e senza dubbio ciò fu di grande vantaggio per lui da un punto di vista sessuale, nonché una dimostrazione del suo valore di guerriero – egli dovette assumersi l’onere di scacciare tutti gli altri potenziali aggressori, o di spaventarli con la minaccia di violentare le loro donne per rappresaglia.   Ma il prezzo della protezione della donna da parte di alcuni uomini contro la violenza di altri fu esorbitante.   Delusa e convinta   dell’innata incapacità femminile di proteggere,   si estraniò   in senso molto reale dalle altre donne:   problema,   questo,   che si riflette   tuttora   negativamente sull’organizzazione   sociale delle donne. E coloro che si assunsero l’onere storico della sua protezione – in seguito formalizzati   come   marito, padre, fratello,   clan – pretesero qualcosa di più di un chilo di carne. Essi ridussero la donna al rango di bene mobile. Il prezzo storico della protezione della donna da parte dell’uomo   contro l’uomo   fu l’imposizione della castità e della monogamia. Un crimine commesso contro il suo corpo diventò   un delitto   contro la proprietà maschile.

La più antica forma di relazione coniugale protettiva permanente, che noi chiamiamo matrimonio, fu istituzionalizzata – a quanto   pare – dal ratto e dallo stupro   della femmina da parte del maschio. La cattura   della sposa, come è chiamata questa pratica, non fu una bizzarra formalità   ma una lotta   in piena   regola:   un   maschio   si appropriava   di una donna,   avanzava dei diritti   sul suo corpo con un atto   di violenza.

È un’ipotesi senz’altro ragionevole che la cattura violenta della donna   da parte dell’uomo   abbia   condotto   dapprima alla fondazione di un rudimentale “protettorato della sposa” e, dopo un certo tempo, alla completa cristallizzazione del potere maschile, ossia al patriarcato. Quale   prima acquisizione permanente dell’uomo, quale sua prima proprietà reale, la donna fu, in effetti, la prima pietra,   la pietra angolare, della “casa del padre.” Era inevitabile che l’uomo includesse nei confini della propria zona la sua sposa e in un secondo tempo la sua prole: fu questo l’inizio del suo concetto di proprietà. I concetti di gerarchia, schiavitù e proprietà privata scaturirono dall’iniziale soggiogamento della donna e si basarono necessariamente su di esso”.

La Brownmille cerca di dare una definizione femminile dello stupro. “ Se una donna preferisce non avere rapporti sessuali con un determinato uomo e l’uomo decide di agire contro   la sua volontà,   si ha un atto   criminale di stupro. Anche se non per colpa della donna,   questa non è e non è mai stata la definizione legale. Gli antichi patriarchi   che si riunirono per mettere   per iscritto   i loro primi patti   si erano serviti dello stupro   delle donne   per forgiare il loro potere maschile: come, allora, avrebbero potuto considerare lo stupro   un delitto dell’uomo   contro la donna?   Le donne erano persone subalterne, completamente possedute, e non esseri indipendenti. Lo stupro   non   poteva essere considerato come una questione di consenso o di rifiuto femminile; né una definizione accettabile per gli uomini avrebbe potuto basarsi su un’intesa   di entrambi   i sessi sul diritto   di una donna alla propria integrità corporea. Lo stupro entrò nella legislazione dalla porta di servizio, per così dire, come un delitto contro la proprietà di un uomo perpetrato da un altro uomo. La donna, naturalmente era vista come la proprietà in questione. L’antica legislazione babilonese e mosaica fu codificata su tavolette   secoli dopo la costituzione   di   formali   gerarchie tribali e degli insediamenti permanenti noti come città-stato. La   schiavitù,   la proprietà   privata e il soggiogamento delle donne erano fatti della vita, e la più antica legge scritta che sia pervenuta fino a noi che riflette questa vita stratificata. Originariamente la legge scritta fu un patto solenne stipulato fra uomini possidenti e inteso a proteggere i loro interessi maschili mediante un civile scambio di merci o d’argento come alternativa, ogni   volta che fosse possibile,   alla forza.   La cattura di donne mediante la forza rimase perfettamente accettabile fuori dall’ambito della tribù o della città come uno dei frutti   più a portata di mano della guerra, ma era chiaro che nel contesto   dell’ordine   sociale uno stato di cose del genere avrebbe condotto   al caos. Un pagamento in denaro al padre di famiglia era un sistema più ,civile meno pericoloso per procurarsi una moglie. Fu così codificato il prezzo della moglie: cinquanta pezzi d’argento. Per questa via indiretta il primo concetto di stupro criminale si insinuò tortuosamente   nella definizione della legge per opera   dell’uomo. Lo stupro criminale, secondo l’ottica di un padre patriarcale , era una violazione del nuovo modo di fare affari. Era, in poche parole, il furto della verginità, un’appropriazione indebita del giusto prezzo di mercato di sua figlia”.

Quest’analisi, di cui sono citati pochissimi ma significativi paragrafi, dimostra che niente è cambiato se ad oggi ci poniamo gli stessi interrogativi che la saggista si poneva nel 1975, ben trentanove anni fa! Ma se le ricerche, le analisi e le ipotesi non hanno prodotto e non producono i cambiamenti immediati di cui abbiamo bisogno, le strade da perseguire devono essere altre.

L’interrogativo è: cosa dobbiamo fare oggi? Ormai abbiamo la certezza che tutto, male e bene del nostro Paese può passare attraverso l’azione politica. Per questo dobbiamo agire sulle e sui nostri rappresentanti in Parlamento e nelle altre istituzioni decisionali, affinché diano il giusto peso alla questione. Economia, istruzione, cultura, lavoro, ecc. non sono per le donne parole prive di significato; così la questione femminile non dovrebbe essere disconosciuta dal Governo. Non per perpetuare una discriminazione e una separazione ma al contrario arrivare alla costruzione di una società multietnica ma anche multi genere che si comprendano e si compensino. Le donne che risiedono nei centri decisionali non dovrebbero vergognarsi di farsene portavoce. Non basta che una donna stia seduta su uno scranno ma è importante come lo usa. Anche questo 25 novembre ci saranno migliaia di iniziative fatte dalle donne, si diranno migliaia di parole a tale proposito, siamo certe che le diranno anche tanti uomini; si denuncerà il dramma del femminicidio. Vorremmo però che le parole si trasformassero in fatti e la giustizia fosse rivista e rafforzata con azioni di prevenzione e punizione, che l’istruzione facesse la sua opera di plasmare giovani menti verso la parità di genere, che la cultura verbale e visiva, i media con essa, proponessero nuove immagini, nuove frasi e nuovi spot. Infine una nuova e migliore società per un cambiamento di sostanza e non d’immagine.

 

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Profilo Autore

Marta Ajò

Marta Ajò, scrittrice, giornalista dal 1981 (tessera nr.69160). Fondatrice e direttrice del Portale delle Donne: www.donneierioggiedomani.it (2005/2017). Direttrice responsabile della collana editoriale Donne Ieri Oggi e Domani-KKIEN Publisghing International. Ha scritto: "Viaggio in terza classe", Nilde Iotti, raccontata in "Le italiane", "Un tè al cimitero", "Il trasloco", "La donna nel socialismo Italiano tra cronaca e storia 1892-1978; ha curato “Matera 2019. Gli Stati Generali delle donne sono in movimento”, "Guida ai diritti delle donne immigrate", "Donna, Immigrazione, Lavoro - Il lavoro nel mezzogiorno tra marginalità e risorse", "Donne e Lavoro”. Nel 1997 ha progettato la realizzazione del primo sito web della "Commissione Nazionale per la Parità e le Pari Opportunità" della Presidenza del Consiglio dei Ministri per il quale è stata Editor/content manager fino al 2004. Dal 2000 al 2003, Project manager e direttrice responsabile del sito www.lantia.it, un portale di informazione cinematografica. Per la sua attività giornalistica e di scrittrice ha vinto diversi premi. Prima di passare al giornalismo è stata: Consigliere circoscrizionale del Comune di Roma, Vice Presidente del Comitato di parità presso il Ministero del Lavoro, Presidente del Comitato di parità presso il Ministero degli Affari Esteri e Consigliere regionale di parità presso l'Ufficio del lavoro della Regione Lazio.

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