Il Natale di Romano

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Albero_Natale520Racconto di Natale , regalato alle lettrici di dols  da Marco Proietti Mancini

Il citofono suona poco dopo la mezzanotte; la Vigilia è finita da poco, mezzanotte è passata, siamo già a Natale e la tavola è ancora piena di fette di panettone, pandoro e pezzi di torrone. Piccole pozze di spumante riflettono le luci e i sorrisi e gli occhi stanchi ma felici di una sera passata insieme.
Quanti siamo non si sa mai di preciso, bisogna contare anche l’ultimo di pronipoti, che ha due mesi e dorme nella carrozzina, lontano dal fumo delle sigarette, dalle risate e dagli scherzi rumorosi? Ma sì, bisogna contarlo, la sera della Vigilia rende la famiglia un organismo unico, in cui tra il patriarca e l’ultimo arrivato non conta che ci sia quasi un secolo di differenza. Sono la stessa cosa, lo stesso cuore che ride per un rito che si rinnova.
Sul pavimento stracci di carta colorata, coccardine di raso e pezzi di nastro. I bambini corrono da stanza a stanza, mentre già cercano il modo per smontare i giocattoli ricevuti, ubriachi di una felicità che non appanna i sensi, che non impasta la bocca e non regala nessun mal di testa al mattino dopo.

Quando il citofono suona ci guardiamo in faccia; chi può venire a suonare a una casa a quell’ora, nella notte di Natale? A rispondere va qualcuno, poi mi chiama.
– Marco, è per te, dice che ‘n’amico tuo. –

Un amico mio? Ma chi può essere?
– Naso’, so’ Romano. Che fai, scenni? –
– Roma’, ma che te sei rincojonito? Ma hai visto che or’è? –
– Vabbe’, ma che te frega. Scenni? –
– Spetteme. Arìvo. –

Il tempo di infilarmi un giubotto addosso e di farmi guardare strano dal resto della famiglia, il tempo di raccogliere sulla schiena lo sguardo preoccupato di mia madre che mi chiede -Ma dove vai? – e sono già fuori dalla porta, sono già in ascensore, sto già percorrendo quell’androne lungo che mi porta fino al portone del palazzo.
Romano sta lì, appoggiato al colonnino vicino ai citofoni, sempre lui e sempre la stessa faccia, alto un cazzo e mezzo, il naso a palletta e gli occhi tondi, intirizzito di freddo, la sigaretta ficcata all’angolo della bocca e le mani in tasca.

– Ciao naso’, ce n’hai messo de tempo pe’ scenne. –
– Ah, pure, ma se so’ sceso subito. Me spieghi che sei venuto a fa’ a quest’ora, la notte de’ Natale? –
– Niente, te so’ venuto a chiede se voi usci’ –
– Usci’? Come sarebbe, usci’? –
– Come l’artre sere, s’annamo a fa’ n’giro. Vedemo si’ se ce sta quarcuno, se famo ‘na canna, ‘n’pàr d’ore e poi tornamo. –
– Roma, ma allora te sei rincojonito pe’ dàvero. E’ la notte de Natale! –
– E allora? –
– Ma come “e allora”, cazzo! E’ la notte di Natale, su a casa mia saremo trenta persone, stiamo ancora a mangiare il panettone, tra poco ci mettiamo a giocare a carte. –
– Ah, ho capito. Vabbe’ naso’, me so sbajato, scusa. Se vedemo domani? –
– Domani? Roma’ ma allora non hai capito. Domani, cioè, oggi, è Natale. Sto ancora insieme ai miei, me sa che io fino al 27 dicembre non schiodo. –

Romano sta lì e non risponde; non si è spostato dal colonnino e non ha neanche tirato fuori le mani dalle tasche. Neanche per togliersi la sigaretta di bocca, ha parlato così, facendo oscillare la brace, tirando il fumo e lasciando cadere la cenere mentre parlava.
Mi sposto e mi metto davanti a lui.
Tiene gli occhi strizzati per il fastidio del fumo della sigaretta, Ma si vede che sta fissando un punto per terra, un punto qualsiasi che non sia la mia faccia e non siano le luci delle case, che non siano le luminarie appese ai balconi che illuminano la notte di colore.

– Romano, ma che c’è? Si può sapere che hai? –

Non risponde; continua a fissare quel punto di nulla per terra, tirando dentro il fumo con rabbia e sputandolo fuori ancora più rabbioso. Si è ingobbito ancora di più, immagino i suoi pugni serrati nelle tasche, mi sembra di vedere il bianco delle nocche tirate nello sforzo. Lo prendo per le spalle e provo a scuoterlo.

– Oh, cazzo Roma’! Ma mi dici che c’è? Come ti viene di venire a cercarmi la notte di Natale, per uscire? –
Insieme al fumo sputa fuori anche parole, mischia insieme la rabbia e il fumo e il fiato e tutto quanto diventa dolore.
– Niente naso’, non c’è niente, tranquillo, scusa se sono venuto a scocciarti. Volevo solo uscire, come sempre. Ci vediamo il 27. –
Si stacca dal pilastrino e fa per andarsene, voltandomi le spalle, camminando con quella sua camminata che conosco bene, le gambe un po’ storte, sembra una campana che oscilla da un lato e dall’altro.
– Oh, ma ndo’ cazzo vai, adesso? –
Si ferma e si volta solo con la testa, guardandomi di sbieco, sempre con gli occhi strizzati. Finalmente si sfila una mano di tasca e la usa per togliersi la sigaretta di bocca, la mette tra pollice e medio e la schizza via in mezzo alla strada.
Si volta del tutto, si strofina gli occhi e finalmente li spalanca e posso vederli. Sono rossi, sono infiammati di sangue e lucidi di lacrime. Certamente il fumo.
-Non lo so, vado a farmi un giro da solo. –
– Ma perchè non te ne vai a casa? –
Sorride, un sorriso amaro e triste. Un sorriso cattivo di solitudine e rancore. Una smorfia di invidia.
– A casa? E che cazzo ci vado a fare, a casa? A vedere la Santa Messa in televisione? –
– A stare con tua madre, i tuoi fratelli. –
– Mia madre dorme dalle dieci, non è arrivata manco ad aprire il panettone. M’ha lasciato da solo davanti alla tavola apparecchiata e mi ha detto “me ne vado un attimo in camera mia”. Dopo una mezz’ora sono andato di là e russava sul letto. Le ho messo una coperta addosso e sono uscito. I miei fratelli stanno nelle case delle fidanzate, festeggiano il Santo Natale a casa con i parenti delle donne. Santo Natale? Santo Natale un cazzo, porco Natale, ecco come lo chiamo io. Porco Natale che mi fa stare più solo che in qualsiasi altra notte, se perfino tu mi lasci da solo. –

Ha vomitato fuori tutto come se fosse un cenone velenoso, come se fosse fiele che lo intossica. Ha bestemmiato le ultime parole come fossero ragni che gli camminavano in gola e gli piantavano le zampe nel cuore. Poi si è voltato e se ne sta andando ancora.
Gli corro dietro e lo fermo, gli passo una mano sulle spalle, ma lui me la scuote via e mi spinge indietro. Mi fissa ancora e gli occhi sono sempre più lucidi, sono velati di lacrime e di nebbia dentro.

– Vattene naso’, vattene. Torna su a mangiare il panettone, a giocare a carte. Lasciami stare. Io ci sto bene da solo. –
– Tu vieni su con me, andiamo. –
– Ma non rompermi i coglioni, ti pare che adesso io vengo su, così siamo tutti contenti. –
– Senti, brutto nano del cazzo, tu adesso vieni su con me e se non vieni è la volta che ti do’ un cazzotto in faccia e quel naso a palla che ti ritrovi te lo sfondo, è chiaro? –
– Ma che cazzo vuoi naso’? Me so’ sbajato, scusa, ti ho chiesto scusa per essere venuto, che altro cazzo vuoi da me? –
– Te l’ho detto, che vieni su con me. –
– Non esiste. –
– Te lo faccio vedere io, se esiste. –

Lo acchiappo per il giubotto e inizio a trascinarlo, lui si ribella e punta i piedi e digrigna i denti, prova a darmi un pugno, ma è la metà di me, mi viene facile stringerlo e strizzarlo. Lo sollevo da terra e lui prova a scalciare, io lo metto giù e gli do’ un calcio in culo, lui si volta e mi guarda feroce, se potesse adesso mi ammazzerebbe, mi morderebbe, se avesse un coltello me lo ficcherebbe in pancia. Siamo tutti e due ansanti e rabbiosi.
Rabbiosi di bene, del bene che ci vogliamo.

– Tu da qui non te ne vai, tu vieni su, a costo di portartici svenuto. –
Si rassegna, si avvia verso il portone. Provo a mettergli una mano sulla spalla, di nuovo, di nuovo me la scuote via. Percorriamo l’androne, prendiamo l’ascensore e siamo già di fronte alla porta di casa mia. Non ci siamo detti una parola, non ci siamo neanche guardati in faccia. Da dietro la porta arrivano gli strilli dei bambini, le voci dei grandi, il silenzio di mia madre che si sta chiedendo dove sono.

Suono al campanello. Sento passi che si avvicinano. Rumore di maniglia, la porta che si apre, la faccia di mio fratello, rossa di caldo, lucida di vino e di risate. Dietro di lui tre nipotini che stanno fermi, i giocattoli tra le mani, a guardare chi è arrivato.

Entro e trascino dentro Romano. Lui si fa avanti, fa un passo e inciampa in un nastro da pacchi che gli si impiglia nei piedi, rischia di cadere e mi si aggrappa.
I bambinio scoppiano a ridere e scappano via. Mi volto e Romano mi guarda, ha ancora gli occhi lucidi. Scoppia a ridere. Mi abbraccia.

Buon Natale, amico mio.

 

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Profilo Autore

Caterina Della Torre

Proprietaria di www.dols.it di cui è direttrice editoriale e general manger Nata a Bari nel 1958, sposata con una una figlia. Linguista, laureata in russo e inglese, passata al marketing ed alla comunicazione. Dopo cinque anni in Armando Testa, dove seguiva i mercati dell’Est Europa per il new business e dopo una breve esperienza in un network interazionale di pubblicità, ha iniziato a lavorare su Internet. Dopo una breve conoscenza di Webgrrls Italy, passa nel 1998 a progettare con tre socie il sito delle donne on line, dedicato a quello che le donne volevano incontrare su Internet e non trovavano ancora. L’esperienza di dol’s le ha permesso di coniugare la sua esperienza di marketing, comunicazione ed anche l’aspetto linguistico (conosce l’inglese, il russo, il tedesco, il francese, lo spagnolo e altre lingue minori :) ). Specializzata in pubbliche relazioni e marketing della comunicazione, si occupa di lavoro (con uno sguardo all’imprenditoria e al diritto del lavoro), solidarietà, formazione (è stata docente di webmarketing per IFOA, Galdus e Talete). Organizzatrice di eventi indirizzati ad un pubblico femminile, da più di 10 anni si occupa di pari opportunità. Redattrice e content manager per dol’s, ha scritto molti degli articoli pubblicati su www.dols.it.

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